Vincenzo Mascolo

VINCENZO MASCOLO

  1. Mi piacerebbe iniziare l’intervista con un ricordo. Com’è stato il tuo primo incontro con la poesia?

Il mio primo incontro risale a quando ero ancora bambino. Mio nonno, che faceva l’avvocato a Cava de’ Tirreni, in Campania, era un grande appassionato di poesia. Io abitavo a Roma con i miei genitori e quando andavo a trovarlo mi portava nel suo studio e mi leggeva la Divina Commedia, Orazio, Ovidio, D’Annunzio e molti altri poeti.

  1. Ricordi i tuoi primi componimenti in versi?

Ho iniziato a scrivere da ragazzo e verso i diciotto anni avevo raccolto già un discreto numero di testi. A venti anni, però, bruciai tutto, ma non ho mai smesso di scrivere.

  1. Ho avuto modo di intervistarti recentemente per laboratoripoesia.it e, parlando della rassegna Ritratti di poesia, ha citato il Web come mezzo che usi per cercare autori e testi. Credi dunque che i social possano in qualche modo essere utili alla diffusione della poesia?

I social contengono un po’ di tutto, testi di scarsa qualità, ma anche altri inaspettatamente interessanti. Per questo considero il web una risorsa e lo consulto spesso perché è possibile trovarvi anche molto materiale sulla poesia straniera, spesso di autori non tradotti o addirittura sconosciuti in Italia. Occorre però un notevole impegno, perché il materiale è moltissimo.

  1. Che idea ti sei fatto dell’editoria di poesia? Troppi libri? Troppi autori?

Credo nell’editoria giovane, indipendente. Spesso le piccole case editrici riescono a individuare e a promuovere autori validi, ma che difficilmente sarebbero pubblicati dai grandi nomi dell’editoria. Bisogna però anche dire che oggi si pubblica un numero eccessivo di libri di poesia, e non sempre di qualità.  Secondo me in questo modo si rischia di disaffezionare il pubblico della poesia, sempre che esista ancora.

  1. In Q e l’allodola il rigore della forma metrica suggerisce anche la necessità di tenere presente la nostra origine, il passato che attraversa e che ha modificato la nostra lingua. É cosi?

Indubbiamente. Sono convinto che la tradizione non possa essere ignorata, nella consapevolezza di chi scrive poesia la riflessione sulla tradizione ha un ruolo molto importante. Il che non vuol dire scrivere in terzine dantesche: la mia è stata una provocazione, un modo per dire che non si può ignorare da dove veniamo. Credo sia importante recuperare, rinnovare, rileggere la tradizione.

  1. Nel libro sono numerosissimi i riferimenti ad autori del passato. I maestri dunque non vanno uccisi?

No, non vanno uccisi. Dobbiamo metabolizzarli, lasciare che la loro voce entri a fare parte della nostra coscienza poetica. Solo allora potremo provare a distaccarci dai maestri.

  1. Chiudo chiedendoti di raccontarci, se vuoi, qualche progetto futuro.

Il prossimo progetto sarà pubblicato a settembre dalla Mursia, un volume antologico intitolato Piccolo dizionario della cura. Abbiamo raccolto quarantadue parole sulla cura e chiesto ad altrettanti poeti di scrivere un testo per ciascuna parola. Il libro contiene poi cinque saggi sulla cura letta dal punto di vista del diritto, della sociologia, della filosofia, della bioetica e della linguistica. É un progetto a cui tengo molto perché serve per parlare di temi importanti attraverso la poesia. Ho quasi ultimato, poi, Orphée, un testo ispirato all’omonima opera musicale del compositore islandese Jóhann Jóhannsson. Sto infine lavorando a un progetto di riscrittura di un testo importante della nostra letteratura, ma per scaramanzia preferisco non parlarne.