Sandro Pecchiari

Nota di lettura su Desunt Nonnulla (piccole omissioni)
di Sandro Pecchiari, Arcipelago Itaca, 2020

La nuova pubblicazione di Sandro Pecchiari è il poema di un ricovero: diviso in sezioni che sono giorni dallo zero al tre fino all’uscita, il percorso ospedaliero dell’autore è incorniciato da un Prima e un Dopo, delimitazioni che solo in parte contengono un tempo continuamente sottoposto a rallentamenti e accelerazioni. Simile trattamento è riservato al ritmo del verso, che procede a scatti (tagli e suture mediche?), franto nella sintassi e timbricamente aperto a varie soluzioni vocali e consonantiche.

Fin dal titolo l’opera evoca un dialogo con altri testi, altre lingue e altre epoche: Desunt Nonnulla è il sigillo all’incompiuto Hero and Leander di Marlowe, poema che si interrompe alla notte di passione tra i due amanti, omettendo (fato o volontà?) la loro fine infelice. Altre presenze negli esergo sono quelle di Rilke, con il commiato di Alcesti che è mistero doloroso e insieme gaudioso e l’annunciazione dell’Angelo, di Sylvia Plath, Mario Benedetti, Gabriele Galloni, Thom Gunn, Al Rempel. E poi lo straniante latino di certi versi, l’inglese della poesia conclusiva scritta ad Al Rama, in Israele: se si volesse trovare un baricentro alla produzione poetica di Sandro Pecchiari, questo andrebbe rintracciato in una sorta di nomadismo che è insieme geografico e linguistico, una comunione con l’altrove fisico e metafisico. Non a caso è Trieste la città del poeta, crocevia di culture, porto che accoglie e congeda. 

Ma i versi di Desunt Nonnulla prendono avvio da un altro luogo, «le torri a Cattinara»: da qui Pecchiari inizia la propria serie ospedaliera, il corpo a corpo con «questo figliocancro / forgiato da anni di parole». Nel poema il rapporto tra il corpo e la malattia che si insinua al suo interno richiama appunto una relazione tra padre e figlio, mito di reciproca generazione e distruzione ed anche ribaltamento della condizione materna. Il silenzio del ricovero conduce inoltre ad una faticosa rifondazione dell’atto verbale: se, rovesciando l’incipit giovanneo, «In principio verbum non erat», allora è impossibile che la parola si faccia carne, Figlio. Il corpo malato conosce solo la fatica del fiato («c’era prima questo suono solo / gutturale»), il suono spezzato («né la parola stringe né fende / il buio dei suoni non domati») e la sanità fisica, dopo l’asportazione del male, va dunque a ricongiungersi con la sanità del linguaggio: è in questa dimensione che di nuovo il mondo è nominabile e la vita, prima misurabile «in meno /parole da scambiare”, può ricominciare ricca di un prezioso «bottino», che pare essere proprio la scrittura di Desunt Nonnulla.

Il poeta, sezionato da lame di bisturi, alimentato da flebo, ridotto con amara ironia a «zombie da corsia», rinasce come nei miti antichi, rendendo la chirurgia un rituale di morte e resurrezione. Ristabilita la parola, lo spazio bianco non è più una costrizione: «il resto [      ] occupa un mare inconoscibile/ dentro che scegliamo / di non attraversare». 

Michele Donati

 

 

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