La dote dei Poeti

SANDRO PECCHIARI, TRA SFIDE E VOLI

A cura di Bianca Sorrentino

C’è un viandante nel cuore di un poeta, un Ulisse che non sa arrestare il proprio viaggio e che rende noi lettori pedine del suo. Poliglotta e cosmopolita è l’arte in versi di Sandro Pecchiari, il quale nella trilogia pubblicata da Samuele Editore traccia una mappa palpitante, una geografia dei corpi con cui, se da un lato ci avverte dell’importanza di fermare con un nome le nostre conquiste poiché i regni diventano pioggia, dall’altro ci esorta a considerare l’opportunità dell’essere rinverdibili. Con il sottofondo di un fado portoghese, l’autore porta avanti la sua ricerca sul suono, scegliendo l’autenticità del dialetto, l’intimità del turco e dell’arabo, la memoria dell’italiano, la modernità dell’inglese, in un gioco ininterrotto di traduzioni che mutano la Parola, restituendole concretezza e respiro, al punto che di ogni mancanza si arriva a percepire il peso, subito accarezzato però dalla levità dello sguardo del poeta.

A proposito del tuo ultimo lavoro, Scripta non manent (Samuele Editore), una prima riflessione nasce già a partire dal titolo: nell’immaginario collettivo ciò che è scritto è destinato a restare, a differenza di ciò che viene pronunciato. Vuoi forse suggerirci, nel solco già tracciato dal tuo primo libro, che siamo tutti rinverdibili e che lo sono anche le parole?

Assolutamente, sono addirittura ricreabili a volte. Scripta non manent è un gioco, perché il vecchio detto latino “verba volant, scripta manent” noi lo interpretiamo nel senso che le parole non hanno peso e volano via, invece la parte scritta rimane a imperitura testimonianza – assolutamente non vero duemila anni fa, perché in realtà la maggior parte della popolazione era analfabeta, quindi “scripta manent” voleva dire che lo scritto rimane là, non ha un’incidenza importante, mentre le parole volano e coprono il pianeta. Ricordiamoci la rappresentazione mitologica della Fama che aveva ottomila ali e ottomila occhi sotto le ali. Nei millenni il significato si è capovolto. Il mio “scripta non manent” significa che le parole non rimangono là, fisse e, da una parte, morte come si intendeva duemila anni fa, da un’altra parte come testimonianza imperitura. Le parole non rimangono, non vanno lasciate e, in questo periodo storico in cui si riscrive di tutto, ho voluto riprendere in mano il coraggio di guardare il passato, rinverdirlo e molte volte anche buttarlo – perché no?! – oppure cambiare completamente il punto di vista di alcune poesie e dare loro un’atmosfera completamente diversa.

Ci sono forse degli avvenimenti biografici privatissimi che incidono, forse dando una scossa…

Da una parte danno una scossa perché interrompono un continuum o un fermo. I fatti della vita di uno scrittore possono innescare un processo a catena. Il primo libro (Verdi anni, Samuele Editore) sicuramente era basato su fatti autobiografici, ma riflettendoci – alla luce di quest’ultimo libro che è antologico – c’è stato un progressivo allontanamento per osservare meglio. Nella prima raccolta c’è stato un distacco da una persona, nel secondo da alcuni luoghi, perché l’incontro con culture diverse genera sì la comunicazione, ma anche l’insicurezza della comunicazione, poiché le lingue sono diverse e interpretabili come si può, ma quello che conta è che cambia il body language, cambia la prossemica, quindi a volte i messaggi vengono del tutto travisati, perciò la comunicazione diventa casuale, random. Come comunico il distacco? Le poesie del terzo libro (L’imperfezione del diluvio, Samuele Editore) sono state messe a ferro e fuoco con un’altra lingua, con una traduzione. Calandole in un’altra sensibilità e in un’altra cultura è interessante vedere cosa resta di queste poesie. Andrea Sirotti nella prefazione dice che quelle non sono traduzioni, ma traslazioni, trasmutazioni. Nel quarto libro ho cercato un distacco anche dalla parte scritta, rimescolata e ripensata. Alcune poesie non le ho toccate perché erano concluse, mentre altre si sono prestate al rimaneggiamento anche se con gran fatica. Ho accettato la sfida di Alessandro Canzian a cuor leggero e poi mi sono accorto che era un lavoro abbastanza complesso; mi sono divertito, ma ci ho messo più di quanto immaginassi.

È coraggioso il fatto stesso di volersi rimettere in discussione!

Sì, e a questo aggiungi il fatto di aver inserito nella pagina sinistra il testo originale e sulla parte destra il testo rivisitato: ti snudi come persona che ha fatto un certo tipo di evoluzione. È un atto di coraggio, ma anche di umiltà nei confronti di se stessi: scrivevo così, però la mia emozione ora è diversa; l’idea rimane valida, ma come posso dirla adesso che sono diverso? Si vede che ho fatto mia la tradizione orale delle tribù dei natives che ho conosciuto in America: lì c’è una certa resistenza a trascrivere, perché credono che una volta trascritti i miti muoiano; un escamotage consiste nel registrare una certa versione specificando autore, data e luogo, così l’evoluzione non si blocca. Evidentemente la mia cultura native è venuta fuori in questo momento!

Questo a ulteriore dimostrazione del fatto che la tua poesia è intrisa dei luoghi che hai visitato, delle tantissime culture con cui hai avuto a che fare. Soprattutto nel tuo secondo libro, ma non solo, si respira questa tua capacità di volgere lo sguardo verso atmosfere altre, di immergerti in tradizioni che giungono ad appartenerti pur non essendo tue, tant’è che tu arrivi a pensare in un’altra lingua!

Hai ragione: tutta questa ridda di dati, di culture, di letture, di viaggi, di persone non l’ho sistemata in compartimenti stagni, quindi c’è un’osmosi caotica di tutto. Siamo tutti legati dall’inconscio collettivo ed è là che andiamo ad attingere. Che sia un dato che mi viene dall’interpretazione scintoista della natura o un tuffo nel mio Israele amato, in fondo c’è sempre un denominatore comune, tutto è riportabile, riesco sempre a trovare un filo che sia coerente nella totale “incoerenza”.

Quando si va via ci si dà un nome, ci si misura con una parte di se stessi che è diversa da quella che si è abituati a conoscere. In Irlanda, mio luogo dell’anima, io ho deciso che questo nuovo battesimo avrei voluto compierlo con il mio nome, fino alla fine fedele a me stessa, anche in un luogo altro.

Ma questo non ti ha impedito di gettare infinite liane su tutto ciò che hai fatto nei tuoi libri sul mito, che sono delle miniere: mantenendo la tua individualità sei riuscita anche tu a gestire e rileggere cose lontanissime. Ho sempre avuto questa visione secondo cui i mondi distanti sono perfettamente penetrabili, non interscambiabili, però complementari. La nostra cultura greco-latina viene dall’India, ha macinato chilometri, è sempre viva: lasciamola vivere! Carne, sudore, lacrime, sangue, viaggi sono più faticosi ma più belli del virtuale; sta lì la realtà, nel fatto di trovare ciò che c’è dentro, snidarlo e metterlo in discussione.

Un altro aspetto interessantissimo della tua poesia è quello relativo al suono, al linguaggio.

Quest’attenzione deriva dalla mia cultura anglosassone, dal fatto che ho insegnato Inglese, dal mondo affascinante delle allitterazioni, della poesia anglosassone. Poi c’è stata una mia domanda quando ho cominciato a tradurre, soprattutto un mio amatissimo poeta canadese, che si lamentava del fatto che un suo traduttore francese si fosse arreso, perché il significante era talmente indissolubile dal significato che il passaggio in un’altra lingua non si poteva fare.

Ancora una volta una sfida…

Sì! Ho provato a calcolare, nel testo di partenza, tutta la natura dei suoni; nella traduzione la somma dei suoni dev’essere quella dell’originale. Se si scelgono certi suoni, devono essere mantenuti o perlomeno traslati in significanti che hanno la stessa valenza emotiva.

Un’ultima domanda!

Bellissima quest’intervista! Peraltro siamo in un posto meraviglioso, in un Palazzo fuori dal tempo a Tredozio, nell’Appennino; dietro di noi c’è una parete di vite americana che vorrei vedere in autunno e siamo attorniati dalle ortensie.

Davvero uno splendido scenario per questo Festival, intitolato Tres Dotes in onore delle tre fanciulle che fondarono il paese secondo la leggenda. Quali sono secondo te le tre doti che deve avere un poeta?

Non per citare Saba, ma è un discorso innanzitutto di onestà nei riguardi di se stessi e della lingua: significa conoscere, leggere, buttar via la carta straccia. Superata la fase creativa, il poeta dovrebbe essere umile, nel senso che deve proporre le sue cose e accettare ogni tipo di punto di vista, perché da quello più incensante a quello più stroncante si apprende, quindi il percorso va ritarato continuamente. Propongo una mia visione: come questo mio scritto riesce a interagire con gli altri? Una volta donato, il testo non mi appartiene più, ma io ne sono responsabile, quindi posso modificarlo – perché Scripta non manent! Nel vuoto creativo è importantissimo ascoltare e leggere, nel rispetto della propria opera, che sia il più possibile pulita, comprensibile, mai spocchiosa, mai dimostrativa. La terza dote è la spietatezza, che deriva dall’onestà e significa saper distinguere ciò che vale da ciò che va buttato via.