Sandro Pecchiari

(Tredozio, 

2019)

Foto Virginia Morini

SANDRO PECCHIARI

Mi piacerebbe iniziare l’intervista con un ricordo. Com’è stato il tuo primo incontro con la poesia?

Il primo incontro è stato con Ungaretti. La mia insegnante delle scuole superiori ci propose un corso di poesia moderna e da lì è nata la passione per la poesia.

Ricordi i tuoi primi componimenti in versi?

Erano delle poesie scritte nei primi anni di liceo in cui erano presenti sentimenti post adolescenziali, molto ungarettiani.

A Tredozio terrai un incontro a proposito del progetto Writing in a different language promosso dal NEMLA (Northeast Modern Language Association) a cui hai partecipato insieme a Monica Guerra e Ilaria Boffa. Ce ne vuoi parlare?

La scelta di scrivere in inglese non è premeditata. Alcune poesie nascono però in inglese e crescono in inglese. Questa raccolta, che ho presentato a Washington, è stata scritta di getto dopo un sogno. Parte dall’idea della sovrapposizione del paesaggio del ricordo con quello effettivo. Un recupero dell’infanzia nato dopo un viaggio in Veneto nel villaggio dove ero cresciuto. Ricostruzione di una realtà che non esiste più. Scrivere in inglese era un modo per difendersi da una ricostruzione che forse in italiano sarebbe stata emotivamente troppo “debordante”. Sono nati testi molto nitidi, lucidi.

È interessante la scelta di usare l’inglese anziché il dialetto per raccontare l’infanzia.

Da piccolo ho attraversato molti dialetti, dalla Trieste del secondo dopoguerra con la mia famiglia mista (mia madre padovana, mio padre istrio-veneto) e il mio triestino degli amici e lo sloveno degli zii. In questa situazione plurilinguistica, i miei hanno deciso di trasferirsi in Veneto e questo mi ha fatto perdere le coordinate e il dialetto costringendomi a ricostruire la lingua, parlavo nel dialetto dei contadini. Siccome questi dialetti erano variazioni dell’italiano, l’inglese mi è servito a prendere le distanze, a bilanciare tutto. È stata una scelta di difesa perché era una lingua in qualche modo mia.

A Tredozio terrai anche una conferenza su Antonio Porta insieme a Michele Donati.

Antonio Porta ha scritto moltissimo, con una struttura molto complessa, un continuo rimando tra prosa e poesia. Il mio lavoro con Michele Donati ha posto l’attenzione sull’incontro che noi abbiamo avuto con Porta, io nel passato e lui come studente. Ci siamo chiesti com’è variata la lettura di Porta nel tempo. Io ho ricostruito una realtà di quegli anni, Michele Donati ha contribuito con la sua preparazione accademica alla critica stilistica dell’autore.

Hai dei progetti in corso?

Ho finito un libro che sto tenendo nel cassetto da diversi mesi, un lavoro su una mia esperienza di vita personale, legata alla malattia, che ho deciso di raccontare senza precisi riferimenti, anzi con un approccio talvolta ironico. É una scrittura molto asciutta, quasi anaffettiva, nata però in italiano. Un libro semplice ma forte, composto da una quarantina di poesie.

La poesia in questo caso ha avuto un effetto terapeutico?

Il libro è nato grazie all’incontro con Giovanna Rosadini chE mi chiese se avessi scritto della mia esperienza con la malattia. È nato da una poesia in inglese ed è continuato con testi in italiano. Credo sia stato terapeutico perché averlo messo su carta mi ha consentito di mettere una distanza, di liberarmi da questo evento, parlarne al passato. L’esperienza rimane ma sono riuscito a tirarla fuori.