La Dote dei Poeti

MICHELE PAOLETTI, IN ASCOLTO DELLE COSE DEL MONDO

 

A cura di Bianca Sorrentino

Se prerogativa dei poeti è dare un nome a ciò che sfugge, spesso essi riescono persino a contare ciò che manca. Con esiti rasserenanti, Michele Paoletti, nella silloge pubblicata da Samuele Editore, Breve inventario di un’assenza, enumera le metamorfosi del reale dopo il trauma della perdita: i tuoi versi germogliano robusti dalle zolle di terra lavorate dalle mani dure del padre, ma al contempo conservano la leggerezza di certe brezze, che spingono la vita più avanti e permettono di sopravvivere alla pioggia. Si intrecciano così, in un viluppo inestricabile, il privilegio e la condanna del saper far di conto: da un lato la capacità di riconoscere ciò che resta e aggrapparvisi con il proprio istinto vitale, dall’altro la ferita della memoria che impedisce di cancellare il nodo sottile del dolore.

Con grande equilibrio riesci a coniugare i suoi studi di Statistica e il tuo lavoro con la dimensione privata della Poesia e quella pubblica del Teatro. Tra questi ultimi due linguaggi c’è un legame strettissimo, che personalmente riconduco alla Grecia classica e alla produzione shakespeariana, in cui l’istanza teatrale diviene occasione di dibattito sulla vita politica; la poesia, e in particolare la tua, ha invece una sfumatura profondamente intimistica, tocca corde private che forse non è neanche lecito pronunciare. Come ti rapporti a queste tre dimensioni apparentemente distanti e inconciliabili?

Il punto di partenza è il teatro, che mi ha permesso di risintonizzarmi sul mondo della poesia. Del teatro a me ha sempre colpito la dimensione dell’ascolto, più che del fare per mostrare qualcosa a un pubblico; il lavoro compiuto durante il laboratorio, nella preparazione dello spettacolo, è sempre proiettato verso l’altro e mai verso noi stessi. Questo continuo essere in ascolto, io l’ho riportato nel mio percorso di poesia: essere in ascolto di ciò che mi circonda, per assorbire, sempre in una dimensione di dialogo, mai di esposizione. Probabilmente la parte intimista che viene fuori lo fa perché si mette in ascolto delle cose del mondo. Questo continuo accordarsi con quello che succede fuori viene dal teatro; quando scrivo cerco sempre di stare fuori da me. Partendo da un’esperienza personale, è logico che ci siano continui rimandi, però sempre in una proiezione verso l’altro.

Quando si subisce un lutto, di qualsiasi natura esso sia – anche solo un distacco –, è facile soffermarsi sull’assenza, sul dato della perdita, su ciò che non c’è più; invece ho trovato elegante, profondo e onesto il fatto che tu abbia deciso di dedicare il tuo sguardo non su ciò che manca, ma su ciò che rimane ed è trasformato da quella mancanza.

Faccio una piccola premessa: il libro è stato scritto quasi tre anni dopo il momento in cui è mancato mio padre, quindi questa distanza mi è servita per prendere uno spazio tra quello che era successo e quello che era rimasto. Probabilmente è più semplice parlare di quello che manca, perché c’è proprio una mancanza fisica, invece per me era interessante indagare su quello che resta, poiché tutto quello che succede lascia una traccia, sia nel caso di un lutto, di un dolore in cui non si riesce più a recuperare la situazione precedente, sia nel caso di una separazione, di un’amicizia che si interrompe. Piuttosto che concentrarsi sull’aspetto nostalgico di quello che c’era prima e ora non c’è più, siccome questo libro è nato mentre nasceva mio figlio, in una dimensione di ricostruzione e di costruzione verso un’altra direzione, avevo bisogno di capire quali fossero le fondamenta da cui ripartire. Capire cosa era stato perso era chiaro, e forse era anche poco utile fare la conta di quello che non c’era più, mentre è stato utile personalmente capire da dove poter ripartire per ricostruire.

Questo si percepisce nel dato rasserenante del dettato poetico che permea la tua silloge.

Sì, la parte centrale è quella in cui ci sono più oggetti, l’inventario che mi sono portato dietro nel percorso di tutta la composizione; la prima parte e l’ultima sono state scritte in un blocco quasi unico: la prima racconta di quello che succede prima della scomparsa, mentre la parte finale, intitolata “Muri”, dice del duplice significato che per me rappresentava il muro – fondamenta, barriera protettiva, ma anche spinta a guardare oltre e superare.

Il concetto di distanza è spesso ricorrente: occorre fare qualche passo indietro per poter osservare e avere una visione più compiuta?

Sì, anche per avere uno sguardo più lucido nei confronti delle cose. Sull’onda emotiva del dolore e della perdita, è facile farsi prendere dal sentimentalismo, usare toni accesi o retorici. Lasciare che il tempo passi e che altre cose succedano fa sì che il discorso si faccia più lucido, più ragionieristico: contare e registrare il distacco. Le poesie d’amore sono forti nella loro presenza, nella loro vita, nell’immediato; quando si tratta di un lutto o di una perdita, è necessario prendersi del tempo per elaborare.

Quindi scrittura come terapia o non solo?

Sicuramente qualche tipo di beneficio personale mi è arrivato da questo percorso, perché era il mio modo di affrontare questa situazione, che è comune, ma che ognuno vive sulla propria pelle e affronta con i propri strumenti; io avevo la scrittura e il teatro. Mi sono preso del tempo per dire qualcosa che potesse andare verso qualcuno e non parlare semplicemente di come mi sentissi io. Scrivere per mettermi in ascolto, a prescindere dall’effetto terapeutico.

Qui a Tredozio si percepisce nitida l’idea di attaccamento alle radici. L’immagine della terra ritorna nel tuo libro…

In realtà è stata una sorpresa, perché, abitando io sul mare, mi ha stupito, non è stata una scelta. Questo tornare alla terra (attraverso l’idea dei muri, del costruire) per me rappresenta il non mutare delle cose, perché la terra si rompe, si corrompe, ma tenta sempre di ricompattarsi. Tutto succede, noi passiamo, la terra ci accoglie e poi ci nasconde, finché non resta quasi più traccia. Questo elemento era diventato quasi un’ossessione per me, soprattutto nella prima parte: la terra era intatta prima ed è intatta dopo; nel mezzo ci sono passati tutti i nostri dolori e le nostre vite, ma nonostante tutto la terra si rimargina, ha questa capacità straordinaria di rimettersi insieme. Un’altra suggestione nella mia scrittura è legata alla casa, come elemento del passato. Sul mare non ho mai riflettuto, perché lo trovo un po’ inflazionato; se ha qualcosa da dirmi, verrà fuori, ma adesso lo trovo un po’ sfuggente, al contrario della terra che mi trasmette concretezza e mi fa capire dove sono.

L’ultima domanda riguarda il nome di questo Festival, Tres Dotes. Alla luce della tua esperienza, quali devono essere le tre doti di un poeta?

Sicuramente il poeta deve avere la percezione della realtà che lo circonda: per poter dire qualcosa, deve avere un occhio molto allenato, una capacità di visione che vada oltre. Poi la famosa onestà del poeta, nei confronti di se stesso e di tutti coloro che dedicano del tempo ad ascoltare quello che dice o a leggere quello che scrive. È un discorso di presa di coscienza di avere un ruolo. E poi l’ascolto, l’aprirsi prima di imporre la propria parola, l’essere aperto allo scambio e al dialogo. Quando scrivo le mie interviste su Laboratori Poesia, a me interessa imparare dagli altri.