La Dote dei Poeti

CLERY CELESTE E IL FUOCO CHE ATTRAVERSA

 

A cura di Bianca Sorrentino

Una delle eredità che abbiamo ricevuto dagli antichi è la ferma convinzione che persino le esperienze di dolore più atroci possano accendere nell’anima una scintilla di luce. Per Clery Celeste, il cui lavoro di radiologa la porta a guardare negli occhi la sofferenza altrui rischiando di lasciarsene sopraffare, quel bagliore lucente è la poesia – sia in senso assoluto, perché la sua capacità di trascendere in versi il proprio vissuto è di per sé un dono, sia in senso lato, dal momento che la sua non è un’arte fine a se stessa, ma diventa generoso strumento di conoscenza dell’altrui sentire.

Nel tuo libro, La traccia delle vene, edito da LietoColle nella Collana Gialla di Pordenonelegge, l’aspetto preponderante è la tua capacità di equilibrista di osservare il dolore degli altri, comprendendolo, ma senza lasciarsi soverchiare da esso. Credo sia una pratica che hai appreso a tua volta con estrema sofferenza attraverso la tua professione.

Sì, è un esercizio quotidiano. Penso che si possa scrivere e dire delle cose che si osservano e che si vivono. Quello dell’equilibrista è un lavoro quotidiano che ho imparato, che faccio tuttora tutti i giorni per far sì che il muro che pongo davanti ai pazienti, che è un muro necessario, sia però un muro poroso, dai cui fori posso comunque osservare l’altro e accogliere una carezza o un abbraccio da un paziente, oltre che le storie personali, senza imporre una totale divisione. Però i fori decido io quando aprirli e quando chiuderli.

Le tue poesie sono in grado di avvincere in una sorta di incantesimo, come è accaduto durante il reading “Tres Dotes di Notte”. Ciò è dovuto, io credo, non solo alla potenza evocativa e immaginifica di quello che scrivi, ma anche al modo in cui leggi le tue parole, seguendo una metrica precisa, quasi fosse un rito sacro che si consuma.

Non sono un’attrice di teatro, non ho studiato recitazione; leggo cercando di rispettare il più possibile le pause e di far cadere l’attenzione acustica sulle parole per me più importanti del testo. La recitazione, ma anche la parola in generale ha per me valore di rito sacro, in quanto (e questa è una lezione che ho imparato andando a scuola di canto) la parola, il canto, l’enunciazione è un rituale sacro, perché, in particolare per la poesia, quando si recita qualcosa che ci è proprio, è come un rigenerarlo ogni volta durante la recitazione, poiché, dall’interno, si spinge il diaframma sui polmoni che si contraggono, arriva alla gola, arriva alle corde vocali, poi l’aria risale alla bocca e il suono esce. Questo è lo stesso movimento che fa in realtà la creazione di un testo, che parte da qualcosa di viscerale, arriva al cuore, all’emozione, al pensiero e successivamente alla parola. L’enunciazione segue per me lo stesso passaggio della scrittura di un testo poetico. La parola ha per me un valore sacro. Sanguineti diceva: le parole sono importanti, non sciupatele. Quando si dice qualcosa, la si fa accadere. Per me le parole non sono vane, non vanno sprecate, neanche nel parlato quotidiano, e a maggior ragione in un testo poetico.

E il silenzio? È indispensabile mettersi in ascolto del respiro nel processo creativo?

Il silenzio è un elemento fondamentale per la poesia, innanzitutto perché dal momento della creazione istintiva, istintuale, pura e semplice – il momento chiamato dell’ispirazione – al momento di compimento di un testo deve passare di solito un grande periodo di silenzio o interiore (quindi dal momento che si è vissuta un’esperienza al momento della creazione passa un tempo di silenzio) oppure dal momento della creazione a quello della revisione. Il silenzio è anche fondamentale nell’ascolto di un testo e nella lettura perché il suono deve compiersi in modo assoluto. Per la poesia, quello che rende un testo funzionante a livello sonoro è la circolarità del suono, la coerenza del suono all’interno del testo, una musicalità, un ritmo ben definito che può variare da testo a testo. Io ad esempio preferisco ritmi più serrati, meno dolci, suoni più aspri, ma sempre in coerenza con tutto l’andamento del testo. Chiaramente anche per “dichiarare finito” un testo bisogna leggerlo ad alta voce più volte.

Siamo a Tredozio, in un Festival che molto ha a che fare con la poesia dei luoghi. Secondo me nella tua poesia si percepisce un discorso sulle radici, anche se i luoghi non sono oggetto del tuo dire poetico. Probabilmente perché le tue radici sono immerse nel vissuto degli altri, le tue radici sono gli altri.

Hai centrato perfettamente. C’è una poesia inedita in cui ho scritto che si sta monchi come alberi visti per metà / senza sapere dove sta il suolo / dove la tomba dei miei cari. Io non ho un concetto di radice mio, ma una radice nell’altro, in quello che di umano ci accomuna tutti. Per me le radici sono umane, non specifiche di una persona: è il concetto base di empatia.

Quali doti deve avere allora chi scrive poesia? Scegline tre in onore del Festival Tres Dotes!

Prima di tutto l’umiltà, poi la coerenza e il fuoco, che non è una dote, credo sia qualcosa che ti visita, qualcosa di sacro che ti attraversa, ma non lo possiedi.