25 Marzo 2021

Dante Presente

Riflessione critica sul progetto: “Tre minuti per Dante”      

 

Celebrare Dante nel settecentesimo anniversario della sua morte: un atto quasi irrinunciabile per chi si occupa di poesia, persino una scelta di etica culturale per noi italiani ed europei, ma che allo stesso tempo nasconde numerose insidie. Facile smarrire anche noi stessi, senza nemmeno poter contare sulla guida sicura di Virgilio, in una selva oscura che trasforma le celebrazioni in autocelebrazioni, con le fiere della banalità pronte a sbarrare la strada.        
Innanzitutto, dunque, un avvertimento: accostarsi a Dante e alla materia bruciante del suo poema sacro necessita di rispetto, cura, consapevolezza. Necessita, soprattutto, di totale adesione: non si può maneggiare il sublime con la fredda abilità del chirurgo, né si può tentare l’approccio rapace del turista. La Commedia è un fonte battesimale in cui immergersi per uscirne ripuliti nello spirito, un pellegrinaggio, un’esperienza estatica. Quest’opera, questo monumento della civiltà umana, ha attraversato ormai sette secoli e cinque continenti: è stata censurata ed è stata esaltata, continua a essere studiata, commentata, interpretata. Continua a interrogare, atterrire, innalzare gli uomini che la incontrano, e il suo splendore illumina ogni epoca passata, presente e futura. Terra e Cielo, castigo e redenzione, farsa e tragedia, potere e sottomissione, merda e diamante, vizio e virtù, parola e silenzio: tutto l’essere è compreso nel viaggio che Dante compie all’interno dei due misteri più grandi, la morte e l’amore.                                                                  
Celebrare Dante, quindi, per celebrare la vita: le sue vertigini di bene e gli abissi di male, gli incontri, le memorie collettive e individuali, i destini. Ma non solo: con Dante si celebra anche la poesia, che non conosce barriere di spazio e di tempo, che sa accordarsi all’anima di ciascuno come una musica.            

Fatta questa premessa è ora possibile entrare nello specifico del nostro progetto. IndependentPoetry ha invitato nove autori e autrici (Ilaria Boffa, Martina Campi e Mario Sboarina, Gianfranco Lauretano, Sandro Pecchiari, Francesco Sassetto, Nadia Scappini, Giancarlo Sissa e Alessandra Gabriela Baldoni, Carlo Tosetti, Francesca Tuscano) a scegliere alcuni versi da Inferno, Purgatorio e Paradiso per poi accostarli a propri testi: il metodo consente di effettuare una piccola ricognizione sulla poesia contemporanea per capire quali siano le tracce del poema che la animano ancora oggi. Naturalmente il numero dei partecipanti vuole essere più che altro simbolico, anche in riferimento alla numerologia dantesca che al nove assegna un ruolo fondamentale: per potersi illudere di raggiungere una qualsivoglia completezza servirebbero forse 14.233 poeti, chiedendo a ciascuno di focalizzarsi su un singolo verso. E tanti non sarebbero comunque sufficienti a esaurire il ventaglio delle suggestioni esercitate dalla Commedia sulla poesia di ogni tempo, anche su quella di oggi.       
Il campione degli autori e delle autrici che hanno preso parte al progetto ha un significato più qualitativo che quantitativo, osservare dove si sofferma la loro attenzione quando leggono l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso è un modo per segnare tragitti sulla mappa della ricezione dantesca in epoca contemporanea. Le scelte operate si dirigono su molteplici versanti e spesso riflettono atteggiamenti stilistici: l’esito di questo esperimento è la fotografia di alcuni linguaggi poetici dell’Italia contemporanea colti nel momento del confronto con il testo fondante della tradizione letteraria di cui fanno parte. Il progetto si configura dunque come un viaggio in Dante, un viaggio che si snoda attraverso nove diverse sensibilità poetiche del presente.  

Dal momento che la rassegna dei contributi d’autore procederà seguendo l’ordine delle cantiche, il primo territorio in cui ci muoviamo è quello dell’Inferno. Il percorso non parte dalla celeberrima selva oscura e schiva anche il rischio di esporsi al turbine ventoso che agita Paolo e Francesca: Carlo Tosetti ci porta infatti all’ingresso del VII cerchio (Canto XII, vv. 31-33), subito dopo che Virgilio ha cacciato il Minotauro. Ambiente aspro, bisogna oltrepassare una «ruina», una frana la cui origine sarà spiegata dalla guida di Dante nel passo successivo alle terzine scelte da Tosetti. Il crollo del terreno risale alla discesa di Cristo nel Limbo: crepacci, fenditure, burroni sono sempre dietro l’angolo nell’Inferno e contribuiscono in maniera decisiva a caratterizzarne il paesaggio. D’altra parte il regno dei dannati non è che una profondissima grotta e prese forma da un cataclisma, quando la terra si ritrasse inorridita per evitare di essere toccata da Lucifero, l’angelo ribelle caduto dal cielo. La ruina del VII Cerchio è sorvegliata quindi dall’«ira bestial» del Minotauro: non stupisce che l’autore de La crepa madre (Pietre Vive Editore, 2020) abbia deciso di indugiare su questo luogo, per altri inospitale. La Crepa di Tosetti non scuote l’Inferno ma un’area geografica della nostra realtà facilmente rintracciabile, eppure va allo stesso tempo collocata in una dimensione fantastica, magari in quella dei perturbanti racconti di Hoffmann. L’autore ci dice anche in quale momento si piantò nella sua fantasia il seme dell’opera: avvenne quando, da bambino, gli capitò di vedere la casa dei vicini sventrata da un improvviso squarcio, proprio mentre una ferita gli crepava il ginocchio destro. Di non secondaria importanza è poi la struttura dell’opera di Tosetti, un poema che segue il preciso alternarsi di ottonari e settenari, a dimostrare che la tradizione della forma poematica non è sepolta ma viva, come la Crepa che procede inarrestabile.                                                                                                                                                        
In tutt’altra direzione si muove Francesca Tuscano: il suo è un occhio (anzi un orecchio) da librettista, attenta com’è alle dinamiche e alle drammaturgie dei personaggi, anche quelli che popolano l’Inferno dantesco, siano essi il mostro d’inganno Gerione, «sozza imagine di froda», o l’anima di Pier delle Vigne, dannato perché suicida e quindi tramutato in arbusto, destino simile a quello toccato al Polidoro di Virgilio. Sono infatti queste due le scelte di Tuscano (Canto XIII, vv. 31-39; Canto XVII, vv. 7-15), immediatamente ricollegate a due liriche inedite sugli stessi personaggi, ma avrebbero potuto essere molte più: le poesie provengono infatti da una silloge di prossima pubblicazione che l’autrice dedica per intero alla Commedia. Ci si trova quindi di fronte ad un dialogo instaurato direttamente con l’opera di Dante, considerata come fonte cui attingere a piene mani senza filtri aggiuntivi: i personaggi del poema parlano a Tuscano con la forza delle icone immortali, tramandano ai posteri la loro eterna allegoria, ma senza cristallizzarsi in miniature immutabili, anzi aprendosi al senso che in loro può intuire l’epoca contemporanea. E così ci scopriamo amanti della frode, che ha il nostro volto, amanti  dell’illusione lasciata fuggire, e nella corteccia di un tronco sentiamo trattenersi anche il nostro dolore: la riscrittura compiuta da Tuscano nasce come dall’intima esigenza di confidarsi con la Commedia ed è uno degli omaggi più sentiti che si potessero rendere a Dante in quest’anno di celebrazioni.  
A chiudere il trittico infernale è Francesco Sassetto, che ci accompagna all’inizio del Canto XXI (vv.1-15): i barattieri scontano il loro contrappasso immersi in una «pegola spessa» e nera. A cosa somiglia questa bolgia «mirabilmente oscura»? Dante la paragona all’Arsenale di Venezia, dove si fa bollire la «tenace pece» che serve a riparare le imbarcazioni danneggiate. L’Arzanà viene quindi descritto con dovizia di particolari, in una similitudine che proietta nella mente del lettore l’immagine degli operai freneticamente impegnati nella manutenzione delle navi. L’occhiale da dantista di Sassetto, autore di diverse pubblicazioni sulla Commedia e sulle sue interpretazioni, ha le lenti calibrate su due sguardi complementari, uno mosso dal sentimento e l’altro dalla ragione: sentimentale, nella sua accezione più alta, è infatti la cura con cui Sassetto ci restituisce un’immagine della propria città, Venezia; razionale è invece la ricerca dell’affresco raffinato, della figura retorica cesellata con precisione da Dante. Anche la Venezia cantata in dialetto da Sassetto si colora di una tinta nera («un mùcio nero sensa più nomi né vose»), non per la pece dell’Arsenale ma per le tenebrose solitudini della notte: oggi la città non è più quella operosa e brulicante di vita descritta dal Sommo Poeta, è un deserto per stranieri in cui i veneziani si sentono alieni, e le navi le si avvicinano non per riportare in patria gloriosi bottini ma per soddisfare i capricci dei crocieristi.       

Usciti dall’Inferno, seguiamo Dante sulla spiaggia del Purgatorio: è la mattina di una domenica dell’anno 1300, probabilmente il giorno di Pasqua. Giancarlo Sissa sceglie di aspettarci qui (Canto I, vv. 115-120): come le prime luci dell’alba illuminano le onde del mare allontanando gradualmente l’ombra notturna, così il viso di Dante dovrà essere purificato da Virgilio con gocce di rugiada. I due si dirigono sul lido dei giunchi ai piedi della montagna del Purgatorio: al sorgere del sole che scaccia le tenebre Dante ha un presentimento che è come una rivelazione, sente di essere tornato sulla strada un tempo smarrita. Inizia ora il lungo processo di purificazione, l’ascesa all’Eden, che lo renderà degno di visitare il Paradiso e contemplare Dio. Sissa accosta a queste due terzine tre prose, una riscrittura delle Isole d’esilio (contenute nella raccolta Persona Minore) fortemente connotate da termini che richiamano la dimensione del cammino e immerse in una onirica atmosfera di viaggio iniziatico. D’altra parte isola d’esilio è anche il Purgatorio, dove le anime dei penitenti fanno ammenda delle proprie colpe in un tempo sospeso. Tra i nove poeti, Sissa è quello che maggiormente si concentra sul carattere iniziatico del cammino (di Dante, personale, collettivo), calandolo appunto nella dimensione del Purgatorio, regno mediano dell’attesa e dell’espiazione, per certi versi il più simile alla mondanità terrestre. L’ispirazione di Sissa è percorsa da un brivido sacro, il «paradiso davanti» non è ancora raggiunto ma il tragitto è segnato e va seguito, anche se porta all’ignoto, anche se «in ogni passo è Dio che trema» nella sua sconvolgente maestà.
La sospensione del tempo è un argomento ricorrente nel Purgatorio: qui i destini devono ancora compiersi, gli anni si misurano in preghiere e essere significa attendere. Martina Campi opta per una raffinata variazione su questo tema, andando a pescare dal Canto V (vv. 103-105): Bonconte da Montefeltro racconta a Dante della propria tragica fine e di come, morendo, abbia invocato il nome della Vergine. Un ravvedimento forse un po’ tardivo dopo una vita di violenza e malefatte, ma tanto basta per ottenere il perdono di Dio: l’angelo dell’inferno si vede così sottrarre all’ultimo momento un’anima che dava per scontata e non gli resta che infierire sul corpo del condottiero. Esito opposto ebbe il pentimento del padre di Bonconte, Guido, frutto di un calcolo maligno più che di sincera devozione: si manifesta così il mistero del giudizio divino, che è anche il mistero dell’insondabile animo umano. Campi (e insieme a lei il musicista Mario Sboarina) mette l’accento su quella forbice infinita e infinitesimale di tempo in cui l’anima è contesa tra il bene e il male: nell’eterno secondo dell’attesa si svolge anche il suo testo inedito, «coreografia infinita» proiettata su parete, su pagina, su musica, che oltrepassa il trascorrere dei mesi, caverna a cielo aperto sotto «un’unica notte stellata». La fusione di musica e parola è poi un dato formale da mettere in evidenza, rappresentando una caratteristica tipica della produzione di Campi-Sboarina: ma ciò che al giorno d’oggi sembra essere ai meno accorti una sperimentazione è in realtà il tratto contemporaneo di una linea antichissima, di cui lo stesso Purgatorio conserva varie testimonianze, come ad esempio nell’incontro fra Dante e il musico Casella.
Di matrice più intima, anzi autobiografica, è invece il contributo apportato da Sandro Pecchiari, la cui musa spesso concilia risonanze interiori ad aneliti universali. Nel Canto XIX (vv. 34-45), Virgilio chiama tre volte Dante, risvegliandolo da un sogno ad alta densità simbolica. I due si incamminano, ma Dante ha la testa talmente carica di pensieri che procede curvo come un ponte tagliato a metà: perché venga imboccata la strada corretta è quindi necessario l’intervento dell’Angelo della Sollecitudine. Un passo di grande delicatezza, soprattutto per quel clima ovattato che segue ogni risveglio: Pecchiari accosta queste terzine ad alcune poesie tratte dalla sua ultima pubblicazione, Desunt Nonnulla (Arcipelago Itaca, 2020), raccolta nella quale si affronta il tema della malattia e del ricovero. Il paragone con la fonte dantesca è ardito ma lecito: a giustificarlo è proprio la lentezza del cammino, lo stordimento da medicinali vissuto da Pecchiari in ospedale, l’affollarsi nel dormiveglia di voci che chiamano – infermieri? Persone care che fanno visita in sogno? – e invitano a ridestarsi. Guardarsi alle spalle, rivivere gli affetti perduti, approdare alla sanità dopo la malattia, fisica o morale che sia: su questa strada si incontrano i due poeti. Infine un dato ancora autobiografico. L’episodio del Canto XIX si svolge probabilmente nella giornata del 12 aprile (secondo altre interpretazioni è il 29 marzo): lo stesso della nascita di Pecchiari, che così si ricongiunge a Dante nel segno degli influssi celesti.                                                                     
Il viaggio della Commedia culmina nella beatitudine del Paradiso: ci troviamo nel territorio dell’ineffabilità, tema presente nell’intero poema che qui brilla di luce perfetta. Già all’inizio del cammino Dante aveva riconosciuto quanto fosse arduo «dire» la «selva selvaggia e aspra e forte» del peccato ma, ora che lo spirito si innalza su vertigini metafisiche mai sperimentate da uomo alcuno, parola, memoria e fantasia mostrano tutta la loro fragilità. Ilaria Boffa parte dall’incipit della terza cantica (Canto I, vv. 1-9), con l’ascensione del Sommo Poeta ai cieli paradisiaci: esperienza impossibile da ricordare nei suoi particolari, perché più ci si avvicina a Dio più si sprofonda in un abisso di luce. Non vi è segno grafico o linguaggio che sia in grado di restituire in maniera adeguata la sensazione di chi si sente «trasumanar»: il movimento verso la divinità avviene naturalmente e sono diversi i punti del Paradiso in cui Dante ammette di non essersi nemmeno accorto che si stava spostando da un cielo all’altro. Boffa focalizza il suo intervento proprio su questo collegamento tra moto ed espressione verbale. La lirica intitolata I suoni del linguaggio è un’oasi di silenzio: l’autrice elenca i «sei gradi di libertà / nel movimento» che possono sperimentare i corpi, per poi constatare nel verso conclusivo, isolato dal resto della poesia, l’impertinenza del linguaggio di fronte alla varietà dei moti. Il tema dell’indicibilità viene inoltre rafforzato dalla natura bilingue dei testi di Boffa, che nascono sempre in inglese: insomma, una sola lingua non è sufficiente per descrivere la realtà, e forse anche due non bastano. L’adesione con le terzine iniziali del Paradiso è stretta persino nel numero dei versi ed è un esempio efficace di come l’eco di Dante possa riverberarsi anche per trame sottili ma resistenti.
Gli altri due autori che si sono confrontati con la terza cantica della Commedia, Gianfranco Lauretano e Nadia Scappini, hanno entrambi deciso di misurarsi con il Canto XXXIII: già questo è un dato che merita attenzione. L’ultimo canto del Paradiso è una delle vette più alte della poesia di ogni tempo e la sua radiosa bellezza, che davvero fa pensare ad una illuminazione divina, è ancora capace di rapire la mente dei poeti con una potenza che non ha pari. La poesia contemporanea, quando vuole sfidare se stessa e la nostra epoca per ritrovare Dio, non ha dubbi nel guardare al canto che conclude la Commedia. E uno sguardo, quello che Maria rivolge «a l’etterno lume», è l’elemento chiave individuato da Lauretano (canto XXXIII, vv. 40-45): «Li occhi da Dio diletti e venerati» intercedono per Dante e sono gli unici a poter contemplare «tanto chiaro» i misteri dell’universo. La grazia è concessa, il viaggio oltremondano del poeta si conclude con il miracolo della visione divina, atto di pura sapienza il cui ricordo sarà come l’impressione lasciata al risveglio da un sogno, come neve che si scioglie al sole. Nei versi di Lauretano si ritrova un trasporto fisico e spirituale che va a coincidere con l’idea di un amore gentile attualizzato, spesso all’interno di una dimensione onirica in cui possono comparire ragazze dai tratti angelicati, ignote beatrici. Il riferimento all’amata di Dante, di cui la Madonna è trasfigurazione ultraterrena, si fa diretto nel verso finale di una poesia tratta da Rinascere da vecchi (Puntoacapo, 2018), che cita e varia l’ultimo endecasillabo di Tanto gentile e tanto onesta pare, mentre nella strofa che chiude Ho fatto un sogno con una ragazza pare addirittura di rileggere la trama ben nota: l’amante, mosso dal «tumulto», «accetta ogni penitenza / ogni esercizio spirituale / per l’ultima volta sanerebbe i suoi vizî / volgerebbe totalmente lo sguardo / per ritrovarsi risorto nell’amata».       
Nadia Scappini si spinge sul limite estremo delle umane possibilità, nel punto in cui Dante, completamente immerso nella visione di Dio, attinge al mistero della Trinità (canto XXXIII, vv. 115-122): un concetto di perfezione inesprimibile nel quale si appaga ogni aspirazione alla virtù e alla bellezza. Dante ricorre ai mezzi della matematica e della geometria, la Trinità gli si manifesta nella forma ideale di tre cerchi sovrapposti di colori diversi, una figura astratta che racchiude in se l’enigma del cosmo. Le poesie inedite di Scappini testimoniano una drammatica ricerca del divino: ricorre un senso di sacro turbamento, la parola si tempra nel fuoco dell’amore e la carne si libera nella sapienza. Ogni tentativo di avvicinarsi a Dio è anche un trasalimento mistico: «[…] c’è una vertigine, una geometria ignota e dolorosa / verso l’uscita necessaria, il viaggio di fuoco / la gloria finalmente della luce».

Completata la rassegna dei nove contributi, resta da tirare brevemente le fila del progetto. Il sondaggio svolto ha permesso di osservare dinamiche eterogenee e ha fornito alcune risposte sul rapporto che lega la Commedia alla poesia di oggi. Autori e autrici hanno accettato l’invito a costruire un ponte attraverso i secoli per risalire alla fonte della nostra tradizione letteraria: poteva sembrare un azzardo, una sfida impari, e forse è stato così, ma il risultato ci dice che la presenza di Dante nel firmamento della poesia continua ad essere un riferimento ineludibile, i versi del Sommo Poeta riaffiorano talvolta come una memoria involontaria, in altre occasioni sono invocati e ricercati, a seconda della sensibilità di ciascuno. L’attualità di Dante è qualcosa di radicale, connaturata alla genetica della cultura occidentale e patrimonio comune dell’umanità, a patto che non si scada in forzature del pensiero e in letture funzionali soltanto alla propagazione di scarne ideologie. Certo, in settecento anni i paradigmi sono mutati e la società ha assunto nuove forme, ogni concezione metafisica è entrata in una crisi epocale mentre il progresso tecnologico e scientifico – lo vediamo bene in questo periodo – viene concepito come una sorta di nuova religione, eppure non è e non sarà mai in grado di quietare le domande che da sempre tormentano l’animo umano: il poeta si scontra con questi interrogativi, oltrepassa i confini e offre la propria visione, espone tutto se stesso al precipizio della verità. La Commedia è magnificazione di Dio ma anche dell’uomo, che nella sostanza divina si vede riflesso e sa di tendere all’amore cosmico. È questa l’eredità da raccogliere, è questo il fuoco da custodire.            
Celebrare un anniversario impone forse di rivolgersi al passato, di riflettere sul presente, ma non basta: Dante indica sempre la strada per il futuro.  

Michele Donati