Francesco Gabellini
La pianta del buio
(Rp Libri,
2025)
Culto del vuoto
Mastica l’aria questo vecchio alla fermata,
gli occhi stanchi riposano sotto la tesa
del cappello. Deglutisce, assapora qualcosa,
sembra nutrirsi del nulla.
Sembra che l’amore si sia fatto sottile
come la sua pelle delicata
e la mia, come quella dei bambini.
Torniamo a essere così indifesi, impauriti.
Finiamo per innamorarci di cose
sempre più piccole, io di un cancello
di legno in un orto sul mare,
del niente che abita le stanze
il primo pomeriggio in estate,
di un grano di polvere che galleggia
nel cono di luce della finestra.
Come per ogni oggetto d’amore
ci avviciniamo al nulla
con la devozione necessaria.
*
Vedere la bellezza del vuoto
Vedere la bellezza del vuoto
sarà necessario, non basterà accettarlo,
del vuoto lasciato
da questo giardino che abbiamo amato
forse più di ogni altra cosa.
Impareremo ad amare anche il melo
che si è seccato, ci fermeremo
presso regioni di fango a osservare,
per capire l’essenza di questo fiore.
Aspetteremo qui a fare niente,
a fare l’amore con le costellazioni.
Lasceremo al tempo il tempo
necessario per diventare migliore.
*
Sai, questa non è più l’ora dell’amore
Sai, questa non è più l’ora dell’amore.
Qui seguono battaglie notturne
contro le lance crudeli del tempo.
Ma ti trovo sempre immobile
tra gli immobili, i cipressi
che mai avevi amato veramente,
conficcati come lame nella nebbia.
E l’ombra, vedi, che a forza di essere ombra
di pietra si è fatta e la mano
spietata, sopra vi ha inciso il tuo nome.
Qui sembra non esserci più posto per l’amore.
Vedessi madre, come si sono fatte
grandi le bambine, donne
ormai, come prevedevi.
Sapessi come resiste in me, feroce,
il pensiero di un amore eterno
oltre ogni notte.
In questo prima raccolta in lingua italiana, dopo sei pubblicazioni in dialetto romagnolo nella varietà riccionese, o meglio costiera, permane nella poesia di Gabellini quella particolare vicinanza al sentimento della natura: vicinanza che trae linfa dalla tradizione, se pensiamo a Carducci, Pascoli ma anche a Montale e Sereni, per tracciare una delle tante direzioni. Non mancano barlumi di altri grandi del Novecento, come Bertolucci, con una citazione ad aprire una sezione del libro, o Pasolini con l’indugiare del mondo davanti agli occhi “e non soltanto in cuore” e quel distico che tanto ricorda Il pianto della scavatrice: “Forse, mi dici, amare è non conoscere. / Sotto le terre altro cielo, altro cielo”.
Ma la fucina di Gabellini, lo sappiamo bene, resta legata alla tempra dialettale, quella devota al paesaggio, alla terra, al mare, a quel particolare rapporto che certe voci (penso a Tonino Guerra, Raffaello Baldini, Tolmino Baldassarri) hanno con l’universo e le creature stravaganti che lo abitano.
La scelta della nuova lingua, per La pianta del buio, chiede una prospettiva diversa: un chirurgico distacco da quell’humus che faceva del dialetto il mezzo privilegiato per raccontare una storia. Questa nuova fase mostra forse l’approdo ad un tempo più maturo della poesia, in cui l’autore compie una svolta faticosa, ma consapevole, dovuta a una postura diversa, per stare e dire nel mondo con sguardo nuovo.
Allo stesso tempo è un modo per stare nella parola senza protezione:
Non sapevo più chi ero,
frammento minimo che si sente mondo
senza più paura del buio, del sempre.
Questo suo esporsi alla conoscenza, privo della corazza della lingua madre e materna, assomiglia al gesto con cui il bambino lasciare andare la mano di chi lo accompagna e lo protegge, per proseguire da solo, al cospetto e nelle insidie del mondo. E ogni passo, sguardo, incontro in questa lingua italiana è esperienza rinnovata di conoscenza, spesso dolorosa, che riconferma ad ogni accadimento la nostra fragilità:
e una vita poi non è bastata
per dire alle stelle come siamo, fragili
così, sotto la corazza dei corpi.
Anche il paesaggio, una costante nella poesia di Gabellini, è ora più fragile e vulnerabile, esso stesso alla stregua di una creatura indifesa: si mostra ferito, deturpato, mangiato per l’indole onnivora delle specie umana che divora tutto, un uomo-topo che fa preda di ogni cosa.
Resistono creature meravigliose, richiamate da un tempo lontano, “ameba o ninfa, ologramma, / essere di una specie mimetica” convocate per amore o per abitare quella dimensione magica, a tratti favolosa, che attraversa certe poesie, composte come piccole storie fantastiche:
Senza che nessuno ci avesse invitati,
come sempre, ci presentammo
ai margini estremi del bosco.
La volpe ubriaca di sangue e astuzie
chiese di identificarci, sembrava gentile.
Non trovammo il coraggio, tuttavia,
di rivelare la nostra specie.
Storie crudeli, per lo più, che mostrano una realtà spietata che può sovrastare o spaventare; ma che, nonostante il male, apre squarci di gioia e stupore. Come la gioia del fanciullino, tutto pascoliano, che si meraviglia al cospetto del mondo:
Cosa vedono i bambini nel mare
che saltano di gioia al suo cospetto?
Forse qualcosa che per noi è nascosta.
Pigiano forte i piedini sulla rena
come per uve di vendemmie antiche.
Il piacere è puro e serra i denti
in gesti folli di scimmie, senza senso.
Senza senso appare a tratti la vita, mentre per lampi, laggiù nella distanza pare schiudersi un segreto: sussurra nel vuoto che ci assedia, ad ogni pagina. Un segreto a cui non si può accedere, se non per scintille che riattizzano le ferite, e che attraverso la memoria liberano un inarrestabile flusso di nostalgia. Un segreto che giunge da lontano – parola ricorrente in questi testi, così come vuoto – da quel niente che abita le stanze (come titola una sezione del libro), dal tempo infinito, così necessariamente leopardiano. Da lì giunge la voce di Giorgino, amico morto a quattordici anni, o la donna del ritratto con cane, o la madre scomparsa, il cui ricordo tiene tutto insieme, proprio grazie all’arte del cucire col suo filo, all’antica sapienza dovuta al suo essere sartina.
Una profonda nostalgia bagna questi versi, che con calibrato lirismo aderiscono al dolore del distacco: degli amori, degli amici, della mamma, delle case, dei luoghi. Versi che cantano la mancanza, lo spaesamento e allo stesso tempo l’amore, in tutte le sue forme; amore che non muore “Amore finalmente, senza nome, / dove potersi amare senza / pronunciare parola. /Dove ombra della mia ombra è luce.”. Amore come luce imperitura, che illumina lo sguardo, il cielo, e gli anfratti più oscuri.
Gabellini lavora sulla lingua con gesto delicato e allo stesso tempo incisivo, cercando di nominare le cose nel modo più autentico, memore del suo dialetto che nelle cose stesse vibrava e si incarnava.
Ora l’approccio è diverso: c’è un distacco da quella fase della vita che lo ha formato, l’infanzia; è questo il tempo dell’età matura, che non corrisponde all’età anagrafica, ma alla scelta consapevole di dire il proprio mondo da una prospettiva diversa, prendendo commiato da ciò che è radice. Per meditare sul senso della vita, sull’amore, sulla morte con una lingua più razionale e meno istintiva.
Ma mentre l’uomo osserva, ascolta, medita, la parola si fa silenzio: si fonde col mare, col bosco, con l’albero e la foglia. Si fa particella viva e pulsante, che respira insieme a quell’organismo unico e senza tempo, che ha per nome Natura.
O più semplicemente, si fa filo di rafia che tiene unite tutte le cose, nel nulla o nel tutto eterno.
Francesco Gabellini (Riccione, 1962) è poeta, educatore e autore teatrale. Ha pubblicato sei raccolte di poesie in dialetto romagnolo: Aqua de silénzie (AIEP, 1997), Da un scur a cl’èlt (La vita felice, 2000), Sluntanès (Pazzini, 2003), Caléndre (Raffaelli, 2008), A la mnuda (Ladolfi, 2011), Nivère (Raffaelli, 2021). Zimmer frei (Il vicolo, 2016), raccoglie cinque suoi testi teatrali, sempre in dialetto romagnolo. Sue poesie sono inserite in varie antologie dedicate alla poesia contemporanea in dialetto. La pianta del buio è la sua prima pubblicazione in lingua italiana.