Francesco Gabellini

Nivère

(Raffaelli editore, 

2020)

Nota di lettura sulla poesia romagnola di Francesco Gabellini

I colori più belli  per l’occhio / sono nell’agonia delle foglie.

Nu andè a dì in gir ch’a i sò
ch’a m’avì vèst snà ir
si slèrgh de mèr,
ch’a s arvidrèm admèn
ti stès dè, mi solìt post.
L’è snà nèbia, ch’la sparès
t’un gir ad vènt.

Non andate a dire in giro che ci sono / che mi avete visto solo ieri /sui piazzali del mare, / che ci rivedremo domani / negli stessi giorni, ai soliti posti. / È solo nebbia, che sparisce / in un giro di vento.

 

Testi e traduzioni

Tl’òuvre

E’ prufòm ad cal pèsghe
vaiòun per la memoria
vaiòun per la campagna sènza fònd
sa che savòr tla bôca
a dmandè da du ch’e’ vèn
‘ste zòcre, ‘sta dulcèza antìga.
L’èbre zèt
l’èbre fèrme ti su an
e’ pèrd al fòie
e pò u gl’artròva,
u n si mòv
u n fa ‘na piga
sèmpra vistìd d’indè.
Miél di ang-le, sènza tèmp
òuvre dla tèra.

Nel grembo // Il profumo di quelle pesche / vaga nella memoria / perso per la campagna senza fine / con quel sapore in bocca / a chiedere da dove viene / questo zucchero, questa dolcezza antica. / L’albero tace / l’albero fermo nei suoi anni / perde le foglie / e poi le ritrova, / non si muove / non si scompone / nel suo vestito umile. / Miele degli angeli, senza tempo / utero della terra.

Òuvre che qui traduco sia con “grembo” che con “utero”, è termine col quale si possono anche intendere le mammelle di un animale, ma credo che la parola in italiano che maggiormente si avvicina al suo significato sia “grembo”.

Vaiòun è un andare senza meta e senza pensieri, un po’ perdersi, un po’ volersi perdere

D’indè letteralmente “di tutti i giorni”, cioè feriale, quasi esclusivamente riferito all’abbigliamento, vestito da lavoro, in contrapposizione all’abito bello della domenica.

E’ post

Mé a sò iché, t’un fròfle a mor
e sòbte già a ‘rnàs.
L’è un strèmle, isè che la mi ômbra
l’arvènza ènca s’a n gnì sò.
Cumè òun ch’u t tìn e’ post
cumè e’ sòl che giuga tra’l nôvle.
o un stèch ch’e’ sbang-la sora e’ fiôm.

 

Il posto // Io sono qui, in un attimo muoio / e subito già rinasco. / È un brivido, così che la mia ombra / rimane anche quando non ci sono. / Come uno che ti tiene il posto / come il sole che gioca con le nuvole / o un ramo secco che dondola sul fiume.

Nas in t’una nàsa
crès, fè raza.
In t’una nàsa zcòrda
mort chi ôcc cér
e la mèna ch’la l cala.
Scurdès dla rèda, dla gabia
e cred che quèl e’ sia e’ mèr.

Nascere in una nassa / crescere, riprodursi. / In una nassa dimenticata / morti quegli occhi chiari / e la mano che le calava. / Dimenticarsi della rete, della gabbia / e credere che quello sia il mare.

La nassa è una gabbia costituita da una rete metallica o di plastica con una specie di imbuto posizionato su uno dei lati. Il pesce, attirato dall’esca posta all’interno, entra forzando le maglie sulla bocca della strozzatura. In questo modo la preda non è poi più in grado di lasciare la trappola.

Francesco Gabellini è nato nel 1962 a Riccione, dove oggi vive.
Ha pubblicato cinque raccolte di poesie in dialetto romagnolo: nel 1997 Aqua de silénzie (Acqua del silenzio) per l’Editore “AIEP” di San Marino; nel 2000 Da un scur a cl’èlt  (Da un buio all’altro), Milano, La Vita Felice; nel 2003 Sluntanès, Pazzini Editore, Villa Verucchio (RN); nel 2008 Caléndre, Rimini, Raffaelli Editore; nel 2011 A la mnuda, Ladolfi Editore; nel 2020 Nivère, Rimini, Raffaelli Editore. Note critiche sulla sua poesia, insieme ad alcuni testi appaiono in Poeti in romagnolo del secondo Novecento a cura di Pietro Civitareale, Editrice La Mandragora, 2005.
Sue composizioni poetiche sono incluse nell’antologia Poeti in romagnolo del novecento a cura di Pietro Civitareale, Roma, Edizioni Cofine, 2006. Sempre nel 2006 viene inserito nel Dizionario dei poeti dialettali romagnoli del 900 a cura di Gianni Fucci e Giuseppe Bellosi, Villa Verucchio (RN), Edizioni Pazzini. Sue poesie fanno parte dell’antologia L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra novecento e duemila, a cura di Manuel Cohen, Valerio Cuccaroni, Giuseppe Nava, Rossella Renzi, Christian Sinicco. Ed. Gwinplaine, 2014.

animus, all’ultima raccolta, Nivère (Raffaelli Editore 2020): le nubi cariche di pioggia e neve che pesano sulle nostre esistenze, minacciose e grevi e tuttavia anch’esse compagne del nostro andare, di una condizione esistenziale tanto dolente quanto immutabile. Un libro splendido, cinquanta componimenti articolati in versi brevi e densi, ritmati in poche strofe spezzate da frequenti enjambements. Un dettato poetico raffinato, lucido e asciutto, fitto di immagini fortemente realistiche e, al tempo stesso, cariche di valenze metaforiche e simboliche. L’autore disegna scene di vita quotidiana, minimi accadimenti, fenomeni naturali, assecondando uno sguardo che procede per rapidi spostamenti della “messa a fuoco”, in un dialogo “interno/esterno”, un’attenzione marcata verso gli “altri”, le esistenze “minime” e marginali.

L’habitus fonico del dialetto – il romagnolo dell’area riccionese – diventa già significato, stato d’animo, come ha osservato il poeta e critico Fabio Pusterla: “In Nivère, certo, non sarebbe davvero stato possibile dire le stesse cose in italiano […] Mi sembra infatti che Gabellini indaghi, dentro il dialetto, le risonanze simboliche, archetipiche, che possono portare a galla fenomeni di profondità (psichica, esistenziale, sociale). In questo senso alcune delle poesie che mi hanno maggiormente colpito vanno appunto in questa direzione: sono le parole stesse, le loro sonorità e le loro armoniche semantiche a guidare il senso.”

L’autore sottolinea, nella Nota in apertura, la necessità dell’uso del dialetto, lingua con la quale “il poeta si fa
geologo e minatore e scava nelle profondità delle stratificazioni linguistiche per estrarre una prima parola, quella che sola, ancora, possa dire.”. Poeta, dunque, come “geologo”, uomo che scende nelle profondità della psiche e dell’esistenza e riporta lacerti di realtà nude e amare, destinate ad un lento processo di disfacimento e dissolvimento. Attraverso le quattro sezioni del libro: L’òuvre (Il grembo), La viola (Il viale), Al crèpe te mur (Le crepe nel muro), Un bicìr ‘d nèbia (Un bicchiere di nebbia) Gabellini conduce il lettore attraverso un paesaggio interiore e naturale, terrestre e marino, di solitudine, un paesaggio umano desolato – non disperato – venato di “crepe”, di pensosità e tristezza, segnato da un’ineluttabile presenza del mistero e del dolore. Campeggiano il silenzio, la notte, l’ombra, la nebbia: “Snà nèbia, sèmpre nèbia / ch’u n s’ved da ichè a ilè.” [Solo nebbia, sempre nebbia / che non si vede di qui a lì.]

Il mistero – fortissimo il riferimento pascoliano ma anche leopardiano – è in ogni cosa, avvolge persone e natura, impregna l’aria stessa che respiriamo. La casa, che ricorre spesso in Nivère, è anch’essa luogo di interrogativi senza risposta, di domande sospese: gli oggetti, le stoviglie, le stanze sono e non sono più, assurgendo ad emblema di un isolamento, una “mancanza” che esilia in un’immedicabile solitudine marchiata dall’incomunicabilità e dal “segreto” (altro termine-chiave della poesia di Francesco). Come nella struggente L’ultma camra: “ A ne savrèm mai cusè ch’u i era / a tl’ultma camra, in fond a e’ curidur,” [“Non lo sapremo mai che cosa c’era / nell’ultima camera, in fondo al corridoio,] e “La chèsa s’è persa ormai dalongh / a t’un purbiòun ad dè.” [“La casa si è persa ormai lontano / in un polverone di giorni.”]. O nell’emblematica Un segrèt dove, al cimitero, “U i è ‘na vècia ch’la prega e la rid / cumè chi sa un segrèt, però u n te dìs.” [“C’è una vecchia che prega e ride /come chi conosce un segreto, però non te lo dice.”] L’eco, qui e altrove, delle atmosfere beckettiane (autore caro a Gabellini) dove sapere è impossibile ed il vivere quotidiano equivale, in realtà, ad una “gabbia”, una prigione.

Nella bellissima lirica in incipit dell’ultima sezione, Nas in t’una nàsa, [Nascere in una nassa] il poeta conclude: “Scurdès dla rèda, dla gabia / e cred che quèl e’ sia e’ mèr.” [“Dimenticarsi della rete, della gabbia / e credere che quello sia il mare.”]. Nessuna montaliana “via di scampo”, dunque, nella poesia di Francesco Gabellini, nessuna consolazione, nessuna direzione certa. Solo gli indecifrabili voli dei gabbiani alti “sulle ombre della sabbia”: “Un cuchèl e’ tira drèt / e’ ségna una riga pricisa, un cunfèin, / d’ilè e’ cmènza e’ mèr.” [“Un gabbiano tira dritto / segna una linea precisa, un confine, / da lì inizia il mare”]. Il mistero, anziché diradarsi, si fa più fitto.

Al sentimento del mistero si annoda la finissima percezione del dolore, anch’esso “naturale”, leopardianamente connaturato ad ogni forma di vita. Spesso occulto ma vivo e tenace: la bellezza della primavera, lo sbocciare del fiore scaturiscono, nella poesia L’alma d’un fior [L’anima di un fiore], da “…una lòta / ad radise ch’al punza, li s’amòcia / lis dà di scatasòun, di mors.” [“…una lotta / di radici che spingono, si accavallano / si danno scossoni e morsi.”]. Sottoterra qualcosa nasce, qualcosa soccombe, in un ciclo arcaico e immutabile, una Legge di Natura imperscrutabile. Il dolore entra nelle nostre case, bussa alle nostre porte, il dolore più terribile, la morte di un figlio. Come nella toccante elegia Cuncèrtche riporto integralmente:

Cuncért

Da quand i à pèrs che fiùl
e’ casca una gòcia da e’ sufèt
sora la càsa de piénfort.
At che gran zèt, u s sènt
sèmpra la stèsa nota.
E’ pèr che e’ su ingègne l’artòrna
mò l’è snà la chèsa ch’la piègn.

Concerto
Da quando hanno perso quel figlio / cade una goccia dal soffitto / sopra la cassa del pianoforte. / In quel grande silenzio, si sente / sempre la stessa nota. / Sembra che il suo ingegno ritorni / ma è solo la casa che piange.

dove il pianto della casa rinvia al “pianto di stelle” pascoliano ma risemantizzato: qui il pianto non è manifestazione di un’angoscia nei confronti del “Male” ma disperata espressione di una sofferenza concreta e insanabile. Come pure il girovagare per la casa della vèdva, la vedova, ripercorrere gli oggetti di una vita comune, il suo stupìto smarrimento si condensano in una domanda destinata a non avere risposta: “Savè du ch’l’è lò adès / duvè che piò nisòuna roba la fa ômbra. / Te ved a la sera, da la fnèstra / che l’artòrna in punta ad pi / mò l’è snà un’ômbra che la sbusa / da spèsa la siva dal melingarnè.” [“Sapere dov’è lui adesso / dove nessuna cosa dà più ombra. / Lo vedi alla sera, dalla finestra / che ritorna in punta di piedi / ma è solo un’ombra che sbuca / da dietro la siepe del melograno.”].

Tuttavia dell’amore che è stato, del pane spezzato insieme, “qualcosa rimane”. In un tono sussurrato, quasi pudìco, nella lirica Presenze – un capolavoro – Francesco Gabellini parla dell’amore con accenti di una verità e dolcezza disarmanti: “Ènca s’a n s’arcnusèm piò / – magari a n sèm mai stè insèn dabòn – / té aspètme a una cert’ora te stès post. / L’ora l’è quèla che a gl’ômbre / li s fa lònghe sla marèina. / […]Quandè che ormai a sarèm dalòngh, / a dlà de port, / ad che nòst ès stè ilè / t vidrè che qualcosa l’arvènza.” [“Anche se non ci riconosciamo più / – magari non siamo mai stati insieme veramente – / tu aspettami a una certa ora al solito posto. / L’ora è quella in cui le ombre / si fanno lunghe sulla spiaggia. […] Quando ormai saremo lontani, / oltre il porto, / di quel nostro essere stati lì / vedrai che qualcosa rimane.”].

Il pensiero del perdurare, di “esserci ancora” apre la porta al sentimento della “rinascita” più volte riaffermato in Nivère. Esplicito e dirompente in Arnàs [Rinascere]: “Nu perd a d’òc e’ cèl / quand u s cala adèsie tla tèra / come l’òs dla pèsga, / arnàs.” [“Non perdere di vista il cielo / mentre si scende lentamente nella terra, / come il nocciolo della pesca, / rinascere.”]. E, con analogo vigore, nella chiusa di Pandemie: “Spèsa cal maschere / ti ôcc dla gènta ch’la va / ancora un lèmp ad lusa / una vòia d’arnàs.” [“Dietro a quelle maschere / negli occhi della gente che va / ancora un lampo di luce / una voglia di rinascere.”].

Nell’avvicendarsi delle stagioni, rinascere è un altro passaggio e compimento, lontano da implicazioni religiose o filosofiche. Tra tanta nebbia e passi di solitudine la “voglia di rinascere” ci ricongiunge alla nostra più intima appartenenza, al ciclo immutabile cui tutto è destinato. Questa la speranza, il viatico che ci dona il poeta. Per un nuovo respiro, un altro cammino.

 

[1] La produzione poetica di Francesco Gabellini ha destato viva attenzione e l’apprezzamento della critica come pure numerosi i premi e i riconoscimenti conseguiti in prestigiosi concorsi letterari. Rinvio, per Nivère, alla recensione di Maurizio Rossi apparsa in poeti del parco il 6 luglio 2021 ed all’articolo di Paolo Zaghini pubblicato in Chiamamicicittà.it il 15 novembre 2021. Sulla sua produzione poetica in generale segnalo l’articolo apparso in Poesia del nostro tempo il 10 gennaio 2018, contenente un’intervista all’autore, attenta soprattutto alle ragioni dell’adozione costate del dialetto da parte del poeta riccionese ed ai suoi riferimenti letterari e culturali; precisissimo il profilo critico tracciato da Manuel Cohen nell’articolo Sette poeti del Nord nel numero di Marzo 2015 di Versante Ripido e, soprattutto, l’ottimo inquadramento critico dell’autore (e l’ampia scelta di testi), sempre a firma di Cohen, ospitati nell’Antologia L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e in altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila, a cura di M. Cohen, V. Cuccaroni, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, Camerano, Gwynplaine Edizioni, 2014, pp. 342-350.