Lucianna Argentino

Corpo di fondo

(peQuod, 

2024)

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Avevamo cani randagi da sfamare, marciapiedi come campi di battaglia per le cerbottane e le partite a calcio, lampioni da scalare sfidandoci a chi arrivava più in alto. Cancelli da scavalcare per quegli altrove proibiti che tenevamo in cuore. Biglie colorate da contenderci. Figurine da scambiare. Alberi rachitici e scuri su cui arrampicarci. Saliva e fontanelle per lavare le ferite. Nonni da andare a trovare la domenica e Natali  interminabili. La chiesa con le campane che suonarono fuori tempo il giorno in cui un povero disgraziato s’impiccò a una delle loro corde. E le campane di gesso, sul cemento, dove lanciavamo il sasso e poi i saltelli su un piede solo – felice esercizio di equilibrio in quell’età traballante. Pietro, il portiere, che ci sgridava per il nostro continuo via vai, su e giù per le scale, di corsa, come se qualcuno o qualcosa ci rincorresse. (Le rondini a primavera mangiarono le briciole che l’inverno aveva lasciato per noi – qualcuno giura che fummo noi stessi a mangiarle. Non avremmo comunque ritrovato la strada perché il vento che ci si era rintanato in petto aveva sparpagliato le coordinate geografiche del ritorno).

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Al principio di nuovi stupori, quando l’infanzia indugiava ancora tra le ciglia, Rosella, sua compagna di giochi, rubò cento lire dalla cassa della merceria di sua madre per un giro sulle giostre che ogni anno sostavano in uno spiazzo sterrato lì vicino. La madre la scoprì (o forse fu l’amica a confessare, non ricordava) e le sgridò entrambe. Entrambe complici nella disobbedienza che lei già la sentiva la caduta nello spazio dove la spiga si fa pane, la facilità con cui il bene frana dalle nostre mani. Già avvertiva la necessità di trovare una più salda presa, un più giusto grado di temperatura per il cuore perché il bene vi possa lievitare.

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È un canto acerbo la memoria che si dispiega a lato del suo compimento – l’erba incolta che dal bordo del campo osserva il grano e lo racconta. È tramandare l’inciampo, la caduta perché tra ciò che si eredita, dicono, c’è la paura, il trauma, la ferita, ma anche la gioia allora, anche quella sta nella trascrizione dei geni. La felice sequenza della vita, l’impronta del mistero in ciò che di noi è sostanza. E, dunque, è un dire grazie al corpo infinitesimo del moscerino, alla piccola Drosophila*, al suo genoma così simile al nostro il poterne fare qui sapienza e poesia.

Il suo nome scientifico è Drosophila melanogaster, che significa «amante della rugiada», ma è universalmente noto come il «moscerino della frutta». Tutte le conoscenze che abbiamo su cromosomi e geni, sulla struttura del Dna e sulle sue funzioni, sono state acquisite partendo dalla Drosophila.

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Non sa dire di no a chi le chiede tempo da aggiungere al proprio tempo, vita alla propria vita se vita è tempo donato. E questo lei crede. Questo vive, quando con nuova sostanza abbrevia i nomi di quanto del mondo è pronunciabile, così che s’affatichi meno il fiato e sia riparo per le parole ancora senza suono, ancora prive di voce nel complemento di moto per luogo dell’esistenza perché scrivere è stare non dove le cose accadono, ma dove si fanno vere.

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Sta dalla parte di quelli che usano le parole per cercarsi nel buio che rosicchia la luce e ai quali accade, a volte, un di più di vita o una sottrazione perché essi vivono nello squilibrio – scomposti senza baricentro – obliqui equilibristi dell’invisibile. Senza consenso.

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Sente il silenzio salire dalle radici delle parole e percuoterle perché risuonino del sapore del pane e abbiano un corpo domestico nell’oscuro delle cose e dei cuori senza più attitudini così che possano diradare il mistero quando, nella luce caritatevole della pagina, vagliano tutte le prove sufficienti a suggerire che Dio possa essere un numero che batte il tempo al nostro respiro.

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Sosta a lungo nel farsi luogo della parola. Impara ad accendere fuochi che ripetano sulla terra il volto delle stelle – un loro tratto almeno – e siano di ristoro allo sforzo di perdurare che ogni cosa ed essere compie. Insegna al pensiero l’uso domestico e quotidiano del silenzio, il suo mutare di sostanza attraverso la liquida sonorità dell’inchiostro.

È di certo e forte impianto autobiografico il criterio che ha guidato Lucianna Argentino nella organizzazione in volume di suoi testi in prosa lirica altrimenti disseminati in varie pubblicazioni fra il 2012 e il 2020. Una semina dunque prolungata, tenace, coerente nell’ambito di un percorso la cui evoluzione segue e accudisce un’onda di pensiero seducente per limpidezza del discorso e per forza interna del dettato. Dalle prose prime qui raccolte e dal preminente carattere nostalgico e memoriale, alle provvisoriamente conclusive, nelle quali il valore narrativo sfuma in una dimensione quasi di diario filosofico ed esistenziale e nelle quali silenzio e parola si dispongono in reciproca testimonianza, le ipotesi tracciate sono quelle di una riflessione alta relativa al nostro, di tutti e non solo del poeta, porci dinnanzi a noi stessi e alla nostra storia. Illuminanti al riguardo le citazioni che Argentino pone in esergo al volume, la prima da Georgi Gospodinov: «Sono vivi coloro che noi siamo stati?», la seconda da Salvatori Natoli: «Il bisogno di risalire all’origine è umano perché l’uomo ritiene, per tale via, di poter scandagliare il suo stesso mistero», poiché proprio di questo si tratta: di sondare il mistero dell’origine di colore che siamo stati e siamo, Corpo di fondo e profondo dell’esserci, e del tentativo di raccontarne e restituirne il frutto con i mezzi che la prosa lirica e la memoria ci concedono, «perché scrivere è stare non dove le cose accadono, ma dove si fanno vere».

Lucianna Argentino è nata a Roma nel 1962. Collabora con la rivista online “L’Indiependente”. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: Gli argini del tempo (ed. Totem, 1991) con la prefazione di Gianfranco Cotronei; Biografia a margine (Fermenti Editrice, 1994) con la prefazione di Dario Bellezza; Mutamento (Fermenti Editrice, 1999) con la prefazione di Mariella Bettarini e postfazione di Plinio Perilli; Verso Penuel (Edizioni dell’Oleandro 2003) con la prefazione di Dante Maffia; Diario inverso (Manni editori, 2006), con la prefazione di Marco Guzzi; L’ospite indocile (Passigli, 2012) con una nota di Anna Maria Farabbi; il poemetto Abele (Ed. Progetto Cultura, Le gemme 2015) con la prefazione di Alessandro Zaccuri;  Le stanze inquiete (Edizioni La Vita Felice, 2016); Il volo dell’allodola (Edizioni Segno, 2019) con la prefazione di Gianni Maritati;  In canto a te (Samuele Editore, 2019) con la prefazione di Gabriella Musetti; La parola in ascolto (Manni editori, 2021); La vita in dissolvenza (Samuele Editore, 2022) con la prefazione di Sonia Caporossi, Orizontul sub gene (poesie in italiano e rumeno Editura Cosmopoli, 2023); Corpo di fondo (Pequod, 2024).  Il 29 settembre del 2019 le è stato assegnato il Premio Caro Poeta 2018 durante la quinta edizione di “La parola che non muore” Festival a cura di Massimo Arcangeli e Raffaello Palumbo Mosca. Il 21 marzo 2025 è stata invitata a rappresentare l’Italia presso l’Accademia di Ungheria di Roma alla XII edizione di Europa in versi (15 poeti europei a Roma per celebrare la Giornata Mondiale della Poesia) dalla Società Dante Alighieri e dalla Fuis (Federazione Unitaria Italiana Scrittori). Dal 2014 collabora con le  Acquelibere Ensemble allo spettacolo di musica e poesia “Almanacco indocile”.