Stefano Simoncelli

Q.B. PRIMO PIANO
Nota di lettura su Sotto falso nome
Stefano Simoncelli (peQuod, 2022)

 

Sotto falso nome, l’ultima pubblicazione di Stefano Simoncelli, si apre con una citazione di Romain Gary sull’accettazione della perdita, la perdita inesorabile che il tempo infligge con il suo scorrere e che, a prescindere dalle battaglie vinte, accompagna ogni individuo alla stessa destinazione.

Lo sguardo si affaccia su un paesaggio che gradualmente si spopola, perde le tracce della carne e delle ossa sino a divenire deserto, luogo in cui alcune forme di vita resistono nascoste negli interstizi al riparo dalla luce e dagli occhi. Non si tratta di un totale svuotamento, la morte sottopone le forme a un processo di trasformazione, trasferisce la sostanza dagli involucri dei corpi ai turbini d’aria, ai sussurri. Sale così anche la voglia dell’autore di farsi calce, macchia, pioggia per scomparire, per riconciliarsi, pur non sapendo dove né come, forse persino per evaporare (o svanire come una bolla di sapone) sopra la folla tra i fuochi d’artificio o nell’origine.

La poesia di Stefano Simoncelli, da sempre dedicata agli assenti, assottiglia con garbo e naturalezza il velo che separa le dimensioni, i suoi versi musicali mescolano gli universi di morte e vita, presenza e assenza, ricordo e sogno. C’è accoglienza dell’oltre ma anche dell’ombra metaforica di un uomo ancora in vita, passibile di sbagli e fallimenti, di ripensamenti che trovano il loro spazio nel silenzio (Radio Silenzio è il titolo della prima sezione del libro). Il peso di ogni perdita piega lo sguardo, l’alba rattrappisce e ritualmente consegna all’autore e al lettore la quotidiana ferita della separazione, ma sono gli slanci di grazia improvvisa a confondere i confini tra le isole di un’ipotetica demenza e le carezze dei morti.

È in questa mescolanza, con la semplicità delle cose che riguardano il Tutto, che accediamo all’universo del poeta dove memoria e silenzio hanno assorbito buona parte dell’esistenza, dove il dialogo è lasciato agli oggetti in disuso, alla voce buona dei morti, dove abita lo smarrimento e dove il tempo non offre risposte definitive. L’alto e il basso si mescolano nell’uso consueto delle terzine ma sempre in modo concreto, l’elevazione parte dal fango (primigenio o meno che sia) artefice di creazione e cadute e quando si evocano gli angeli (con serie avarie alle ali) scendono in campo i monatti per mantenere in piedi gli equilibri.

Si avanza in una sospensione temporale (uno squarcio tra presente e passato) tra felci, ciclamini selvaggi e ginestre per scovare il punto del ritorno, per giungere a compimento del ciclo perché la dispersione futura, su un campo (che evoca per un attimo il campo al di là del bene e del male di Jalal ad-Din Rumi) si trova l’ultima tappa naturale del viaggio. Ci sono le colline verdi dell’autore, in queste pagine, i fiori e i profumi, il suo mare Adriatico, le case e le persone dell’infanzia e del cuore a tenere insieme lo strappo, ad alleggerire e accompagnare ogni possibile epilogo.

Ogni individuo è parte di un sistema familiare in cui sopravvivono, sia nel bene sia nel male, le tracce di chi lo ha preceduto, dimostra Stefano Simoncelli, ammettendo che i conti in sospeso a volte non si chiudono ma anche che l’amore può resistere a qualsiasi recisione. Certi demoni non soccombono ma con il tempo e con l’accettazione divengono più mansueti. Tornano gli amori interrotti, i non detti, la voglia matta di affrancarsi da una figura genitoriale e a tratti di non somigliargli (che spesso sfocia in un caos identitario, sortendo l’effetto contrario).

Nella sezione Verso casa lo smarrimento non riguarda più solo le coordinate interiori, un’imperforabile opacità ha sostituito la neve (non c’è più la neve misericordiosa della prima sezione) avvolgendo nella promiscuità ogni cosa. C’è un principio di fraudolenza (l’acqua ristagna e l’erba è sintetica, persino l’inverno a metà gennaio sembra un’altra stagione), nulla è più come sembra, eppure tutto è merce in vendita. E così la realtà degli empori cinesi, degli sbandati e dei lavoratori in nero tratteggia lo sfondo al mistero delle cose senza nome di cui è costellato il libro.

Se l’autore non sente più la sua voce e le mani, se è andato all’asta il suo senso dell’orientamento se mai si è sentito così confuso e impotente davanti al male, si apre d’un tratto anche uno squarcio inatteso di sole (di nuovo su un paesaggio di neve), subentra, entro l’orizzonte delle perdite e forse della paralisi pandemica, un possibile minimo slancio nuovo, un’evoluzione che nasce dalla fragilità (e caducità); tra le ombre dei versi affiora la luce più vera. L’indagine più difficile e al contempo necessaria alla vita si srotola tra gli interrogativi e le riflessioni sulla morte condensate in queste pagine.

Immancabile ritorna, fra altre figure, il poeta e amico Vittorio Sereni, tra la squadra di calcio del cuore (unico testo non in terzine) e le passeggiate sul lungolago; le lettere al padre e una sezione in cui Stefano Simoncelli riprende il dialogo intenso e commovente con la moglie Patrizia in Ultime cartoline al tuo silenzio, potentissimi versi d’amore, in assenza d’amore.

Si congeda in qualche modo l’autore abdicando al bisogno di sentirsi vivo, nella ricerca di una tregua, nell’espiazione di una penitenza e anche nella colpa dei sopravvissuti attendendo il ricongiungimento con chi è già partito per un viaggio senza ritorno, affondando ogni giorno un poco, imparando gradualmente dal buio, per continuare a vivere, la lezione su come morire nel frattempo.

Monica Guerra 

 

 

Da Sotto falso nome (peQuod, 2022)

 

L’alba si è come rattrappita
sui versanti delle colline
che guardo dalla ferita

di una finestra a ghigliottina
mentre una neve misericordiosa
copre come un lenzuolo funebre le tracce

di chi se n’è andato per sempre.
Ho così tanti lutti sulle spalle,
così tanto silenzio e dolore

che in momenti di grazia
o forse di senile demenza
sento addosso la tenerezza

dei soffi e turbini d’aria
con cui mi accarezzano
e baciano i miei morti.

 

*

Passo le giornate come se mi trovassi
all’ultimo piano di un grattacielo.
Ho perso proporzioni, distanze

e la strada che si snoda là sotto
è in scala ridotta, miniaturizzata
e abitata soltanto da un randagio

con il muso dentro alla spazzatura.
Perfino l’inverno, e siamo in inverno,
a metà gennaio, sembra un’altra stagione.

C’è una cupa e imperforabile opacità
che copre i tetti al posto della neve
e tra poco me ne andrò a vedere

gli alberi senza foglie, l’acqua
che ristagna nella fontana,
il prato di erba sintetica

all’ingresso dell’emporio cinese
e farò finta di essere una statuina
di gesso ai margini di un presepio.

 

*

Ho preso appunti con la matita
su una tua camicetta azzurra
cui mancano due bottoni.

Forse li avevo strappati
in uno dei miei impeti
non so se d’amore o rabbia

e ho tirato un’altra volta l’alba
in un punto che non ha ritorno.
Mi trovo ancora lì e ti aspetto.

Cesenatico 29 marzo 2021

 

*

Ti ho chiamata tutta la notte
e ho pregato per ore in silenzio.
Più tardi, ho sentito le tue mani

che mi cercavano dove sei venuta meno
ed era ancora febbraio che preparava
neve alta di là dagli scuri chiusi

e sulle banchine del canale
qui, dove sono rimasto
a vivere anche per te,

se mai sono ancora vivo.

Cesenatico 15 aprile 2021

 

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Alcuni scatti di Roberto Ceccanti a Stefano Simoncelli,
Festival Tres Dotes ed. 2018 – Tredozio