24 Novembre 2023

Discanto- Rovereto

Francesco Sassetto, DISCANTO, Arcipelago itaca, 2023

a cura di Sandro Pecchiari

È stato presentato il 24 novembre 2023 alla Biblioteca Civica “G: Tartarotti” di Rovereto il più recente libro di Francesco Sassetto; un libro che si è gemmato dal libro precedente “Il cielo sta fuori”, Arcipelago itaca, 2020 nel suo divenire “Discanto”, sempre con i tipi di Arcipelago Itaca, giugno 2023, con una preziosa prefazione di Manuel Cohen e cinque significative immagini di Manuele Elia Marano. Sono presenti inoltre due contributi critici di Monica Guerra e Sandro Pecchiari.

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Partendo dall’asserzione di Paul Valéry, “Le poesie non sono mai finite, vengono solamente abbandonate”, tema questo che riguarda la scrittura e la possibile riscrittura, le poesie di questo libro in effetti hanno storie che non sono mai state finite e non sono state di sicuro abbandonate.

La raccolta in effetti si sviluppa come una vera sequel, senza mai ostacolare o fermare il flusso di coscienza come spesso succede al momento del punto fermo e “dell’OK, si stampi”. Qui i testi non si rinchiudono in sé stessi senza ulteriori vibrazioni, ma si ampliano e si raccontano in un dialogo di rimandi e riferimenti ai temi cari alla poetica di Francesco Sassetto.

Proprio come nella musica medievale, la raccolta presenta un andamento polifonico di canto e controcanto. E proprio come nel discanto, (va citato doverosamente lo splendido Discanto di Ivano Fossati del 1990) a volte la voce del poeta si erge sopra le storie e le amplia, salendo di tono. In questo libro il lettore viene stimolato a ritornare sui propri passi, riaprire e rileggere i libri precedenti e riprendere e rinfrescare il filo delle storie.

Qui si narra il ‘dopo’ dei personaggi incontrati e si risistemano con tenero e nitido discanto tutte le emozioni osservate, vissute e condivise precedentemente. Nulla quindi sembra finire abbandonato, al contrario viene reso vibrante di vita e di interpretazione nuove.

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La struttura del libro si articola in tre parti tematicamente piuttosto differenti:

-la prima parte racconta le miserie della piccola Italia mortificata ogni giorno da politici scellerati cui corrispondono altrettanto scellerati cittadini,

-la seconda vira nel senso di una dimensione privata, faccende intime, un diario che registra amarezze e delusioni personali,

-la terza invece punta l’obiettivo su vicende di donne comuni, accenni di storie, graffi che dicono la mortificazione, l’umiliazione del quotidiano.

Manuel Cohen, nella bella e articolata prefazione, scrive che

la prima sezione può essere considerata “una zoomata micidiale sull’Italietta ridotta a parodia triste e tragicomica di sé stessa”. Qui ritroviamo i misteri mai definitivamente risolti della strategia della tensione, gli attentati all’Italicus e alla stazione di Bologna, la strage di piazza Fontana, quella zona buia e mai abbastanza illuminata che ha punteggiato tristemente tanta parte della storia d’Italia dell’ultimo mezzo secolo. Qui a fare da controcanto le poesie dedicate a Peppino Impastato, “tu a deridere il Don Rodrigo temuto da tutti”, e a Pierpaolo Pasolini, di cui restano le parole come pianto e frustate, oracoli, pietre scolpite, “i tuoi versi di rabbia e di pietà”.

È una parte che ‘rinfresca’ momenti della storia italiana recente e meno anche per insistere sulla necessità di ribadire una “memoria storica” che rischia di diluirsi.

In queste poesie si preferisce usare l’italiano, per ragioni di incisività “logica”, qui prevale la ratio, l’incazzatura e il giudizio, anche nell’additare comportamenti di molti italiani a malapena condivisibili, spesso improntati ad un’italica ambiguità e ipocrisia.

Testi esplicativi di questa parte posso essere, tra gli altri, Sei il Paese delle feste, Hai lasciato casa e scuola, sulle Brigate Rosse cadute nel dimenticatoio, la tragica ironia di Collegio Docenti.

Nella seconda parte, ma non esclusivamente, La conta dei giorni, vi sono alcune poesie di carattere amoroso-esistenziale, spesso condotte o concluse in un’atmosfera “di indeterminatezza e indecisione”. L’amore vi appare così sfuggente, sospeso, in bilico tra il ricordo, la porta chiusa e un’attesa un po’ beckettiana che comunque non si compie.

Un testo estremamente significativo può essere Non starò più a cercare parole, con il suo incipit gucciniano.

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I tre segmenti diversi di realtà che donano forma e sostanza al libro trovano nel discanto la loro unione, nella delusione e nella mortificazione di attese, di speranze deluse. Quanta solitudine, quanta infelicità a dispetto, o discanto, delle fabbriche, delle villette, dei Suv e dell’arroganza di chi ha fatto i soldi e sostiene un potere scellerato, politici indegni e privi di umanità, feroce competizione, voracità arrembanti, mancato rispetto delle regole.

Il libro riesce a evocare e a fondere sapientemente un sentimento di stanchezza a uno di riscatto e di rivalutazione degli atti della vita. E sfugge alla definizione troppo classica di “poesia civile” come la si intende comunemente. Fa venire in mente “Gallia est omnis divisa in partes tres” dell’incipit del De Bello Gallico di Giulio Cesare, che viene spesso reinterpretata ed utilizzata per commentare situazioni complesse o evocative, come in questo libro.

Il senso-sentimento di “stanchezza” domina e attraversa la raccolta e “unisce”, le varie componenti tematiche, come pure l’appartenenza di tutti i testi alla cosiddetta “poesia civile”,  se qualcuno necessita di definizioni e incasellamenti, che però è civile nel senso di poesia di relazione che sa indagare la diversa natura dei rapporti che si instaurano tra le persone, di sintonia o di contrapposizione, a volte di violenza, a volte di straniamento perché non sempre è facile distinguere chi sia lo straniero e cosa significhi essere straniero. Come definisce con acume Stefano Valentini, poesia “civile” in quanto poesia di rapporto e relazione reale, tangibile, quotidiana non solamente con se stessi, ma soprattutto con gli altri. Non genericamente con l’altro, entità più o meno astratta, ma con gli altri, concretamente individuati e percepiti.”

Direi quindi che è un grosso abbaglio critico quando si dice che un poeta civile non parla anche di se stesso.

Il libro investiga le possibili ragioni dell’infelicità attuale, la solitudine, l’indifferenza che sembrano consistere in una sorta di anestesia collettiva della sensibilità, un intorpidimento dell’anima che impregna l’aria stessa che respiriamo.

Le cause di questa infelicità sono molteplici e non sta certo ai poeti trovare soluzioni. I poeti possono e devono indicarle, farne materia dei loro versi, in una volontà di re-azione, di resistenza che, se non salva la vita né cambia il presente, genera forse almeno consapevolezza, risveglia coscienze assopite, spinge a pensare, ad emozionarsi, ad un “sentire insieme” che di un cambiamento può costituire la premessa.

Sono chiarificatori i versi di I ne ga ciapà par stanchessa , che poteva persino essere messa in incipit di libro, a evidenziare questa sensazione di impotenza, forse di scoramento, a situazioni che si spera non tornino. Per poi sottolineare, in Cettina il sofferto inserimento e il dolore che permea la vita, attendendone un’altra desiderata e spiegabilmente migliore. L’indifferenza nella fretta delle cose inutili di ogni giorno taglia persino le radici con gli affetti e la continuità col nostro passato nella poesia Ca’ di dio. Fino al muoversi in questa ‘balorda scacchiera della nostra vita’, E tu gli dici sì e poi no, dove lasciamo che persino l’amore venga malmenato e trattato con poca attenzione.

Nell’alternanza di italiano e dialetto, a volte italiano con dialetto, a volte italiano Vs dialetto, urge una bella discussione sull’uso del linguaggio e quale possa essere l’equilibrio a volte armonioso, a volte dirompente nell’usare lingue e registri linguistici diversi. La necessità di questa alternanza/mescidanza italiano dialetto sottolinea e accompagna il dipanarsi del libro che si muove tra cantabilità e ‘discanto’, alternando a 15 testi in lingua italiana 14 testi in lingua veneziana, interfacciando o intercalando poi 8 testi ibridi, mescidati con italiano e dialetto. Questa modalità mossa e articolata nella proposta, è probabilmente la più congrua a una rappresentazione (verrebbe da scrivere: a una narrazione) di “letteratura in atto”: la vera, sostanziale, diffusa e attuale lingua della Koinè, mescidata e meticcia.

Lo “scivolamento” dall’italiano al dialetto infatti è un valore specifico e centrale nella sequenza di queste poesie: qui il linguaggio è il compimento della storia, l’humus dal quale il poeta ci trasmette la voce delle protagoniste e coglie i nodi di instabilità delle loro vite. Diventa sermo humilis, linguaggio basso nella riflessione intima o nei flash di parlato, corrisponde alla vicinanza degli eventi nei particolari che vengono messi in rilievo oppure alla loro lontananza nel rarefarsi di alcuni contorni e dello sfondo. Anche il dialetto rappresenta una variabile delle vite così precarie, tra continuità, aspettative e cambiamento.

Direi che il dialetto è spesso “richiesto” dal testo stesso, riporta, quasi come un referto clinico, la “verità” di situazioni, immagini, discorsi, costituisce il milieu più autentico che l’italiano renderebbe più debole, meno concreto, il dialetto al contrario è una lama che affonda.

Nella terza parte, ma non esclusivamente solo in questa sezione, Con nome di donna, come scrive Cohen nella Prefazione, vi sono molte  figure femminili, “splendidi mini-plot narrativi, microstorie abbozzate di vittime, di umiliazioni e di offese”. Basti leggere come esempio Le ragazze delle diciannove, di spietata ironia o Jessica che è il riscatto da tutti questi fatti orridi di malversazioni di cui abbiamo un esempio lampante e lacerante in questo buio periodo.

Verso la conclusione del libro, vi sono due poesie importanti, sul padre e sulla madre, in dialetto la prima, in italiano la seconda: il padre è la mancanza e la madre la memoria (anche il dialetto abituale, domestico, sparisce con lei in una “lontananza” inconoscibile).

La raccolta di Sassetto, sempre aperta sul mondo, sugli “altri”, agli eventi della contemporaneità e del passato recente, si chiude con due testi “personali”, “privati”, così come nella raccolta precedente, Il cielo sta fuori, aveva dedicato una poesia alla madre, Mi lo so, mama, che si chiudeva con i versi: “me tegno stréte nel pugno le to parole, la bussola/che ti me ga lassà”. Un forte segno di coerenza e continuità tra Discanto e Il cielo sta fuori.

Quella bussola, quella lezione di dirittura morale ed etica è ciò che oggi manca al mondo e gli sfaceli descritti nelle poesie precedenti ne sono la conseguenza, l’esito tragico di una perdita/mancanza di valori, responsabilità, consapevolezza e conoscenza.

 

Sei il Paese delle feste e dei festival ˝io, tu e le rose˝

e la pistola di Luigi, terra di poeti e santi

navigatori ed emigranti, ˝bella ciao˝

e ˝fin che la barca va˝, mani che stringono

mani ammiccanti, una lava l’altra,

il bacio sulla bocca di Ivano

e quello di Giulio a Totò Riina.

Tutto è come prima se togli l’ultimo travestimento

le maschere di Pirandello, la smorfia di Totò

sono la faccia di quest’aiuola feroce, siamo

il popolo del pianto posteriore sulla carne

dilaniata, Piazza Fontana, Italicus, Bologna,

terra di trame, complotti, deviazioni,

il Palazzo dell’arte di insabbiare.

E poi vent’anni di risate, bunga bunga, puttane

politici corrotti, giornalisti prezzolati, finanza

allegra e leggi per sé e i suoi lacchè, i trattati

con Gheddafi, il Cavaliere dall’ampio consenso

popolare, che ha fatto del Paese bordello personale.

Sei la macchia nera che s’espande e tutto avvolge

in una melma criminale che si fa normale, Regno

di Signori feudali arroccati nei loro castelli

guardano i sudditi obbedire

andare chini a lavorare

sorridono

li chiamano cittadini.

*

Collegio docenti

Il Dirigente illustra a tutti, colleghi vecchi e nuovi, la mission

d’Istituto, un odg imponente, 16 punti più varie ed eventuali

da discutere condividere archiviare nel drive istituzionale,

da direttiva ministeriale.

Tutti presenti a distanza dagli hub delle sedi territoriali,

difficoltà di connessione, l’audio gracchia a tratti salta

qualche frase, capire non ha importanza.

Il Dirigente sollecita a seguire le buone pratiche indicate

in precedenti assembramenti, si strugge per l’assenza

della firma digitale sul Patto Formativo Individuale,

tutti provvederanno subito all´adempimento.

Qui oggi è così.

Tutti dicono di sì

sì a tutto quanto.

Si approvano, una dopo l’altra, la DAD e la FAD, il PTOF

il Patto di Corresponsabilità, le procedure per BES e DSA,

la didattica inclusiva e laboratoriale, il NIV, il RAV

le Formazioni obbligatorie e quelle di libera elezione.

Vince la scuola delle competenze, del saper fare, obbediente

alle richieste del Mercato, le esigenze della produzione.

Tre ore di malumore e la commedia è terminata, ognuno

ha recitato la propria parte, ha dato il proprio assenso,

39tutto approvato all’unanimità, il plebiscito della viltà.

Il Dirigente ora è contento, infine le pecore obbediscono

al pastore, si va fuori finalmente

come a calcio conta il risultato

e la sigaretta prima di ricominciare.

*

Non starò più a cercare parole

che non trovo e invece ancora qua, le mie parole

ai tuoi capelli agitati dal vento, lo sguardo acceso

la voce inquieta i lunghi silenzi

viaggi finiti a rive di sale

nemmeno pensavi a una spiaggia di quiete

non ci credevi.

Il tuo amore a sbalzi e sobbalzi, intermittenze

voli improvvisi e cautele, arretramenti

                                                        slanci e timori

e va bene così, il tuo amore da prendere

un passo alla volta

                                     rotolando di cornice in cornice

e i amìssi i parenti a dir prudénsa pasiénsa´ndàr pian

intanto´ndàvimo par man su ła riva a ła Giudèca

quel giorno de novembre nel caìgo che no se vedéva

gnente e ti ridevi e ridevo anca mi e ti ga fermà un fìo

che ne fasésse´na foto in mèzo ai cocài che svołava

dapartùto che i paréva mati

a scandire un tempo sospeso di baci e parole

e ancora silenzi

sguardi e sorrisi nella danza d’ali viaggianti

al respiro dell’esistenza

                                               disegnare nel cielo

parole di un alfabeto nuovo, un domani

                                                                           da divinare

e dèsso ti me tién fra i bràssi, ti me disi

de ciełi e de vento

e no so se ti xe ´ncora qua

o ti xe za svołàda via.

[vv . 13-18. Traduzione dal dialetto veneziano: e gli amici i parenti a

suggerire prudenza andare piano / intanto andavamo per mano sulla

riva alla Giudecca / quel giorno di novembre nella nebbia fitta / e tu

ridevi e ridevo anch’io e hai fermato un ragazzo / per farci una foto tra i

gabbiani che volavano / dappertutto impazziti.]

[vv . 26-29. Traduzione dal dialetto veneziano: ed ora mi tieni tra le

braccia, mi parli / di cieli e di vento // e non so se sei ancora qui / o sei

già volata via.]

69E par teéfono quasi

no se parlémo, póche paròe d’amor

*

Cettina

Venuta dalle scogliere del sole di Capo d’Orlando

che odorano di fichidindia e di sale, rivàda qua zo

a ’sta tèra de fabriche, viéte e Suv nel caìgo

de San Donà de Piave.

´Na camera pianotèra bagno e cusìna, do balcóni

su tre metri quadri d’erba smorta e seménto

par qualche suplénsa ogni tanto

mèio che star zo a spetàr.

I tuoi capelli neri, Cettina, un poco imbiancati,

gli occhi miracolosamente capaci di sorridere

ancora, la tua giovinezza perduta in carte da bollo

quella telefonata da attendere sempre.

Ti guardo in stazione seduta sulla stessa panchina

aspettare il solito treno, mi saluti mi dici˝ a domani˝.

Ti guardo e conosco sul tuo volto un’antica ferita

un dolore nascosto

                                     una lunga storia di treni e valigie

da fare e disfare

                                     una storia che non è ancora finita.

[vv . 2-8. Traduzione dal dialetto veneziano:…arrivata quaggiù / a

questa terra di fabbriche, villette e Suv nella nebbia / di San Donà di

Piave. // Una camera a pianterreno bagno e cucina, due finestre / su tre

metri quadrati d’erba stenta e cemento / per qualche supplenza ogni

tanto / meglio che restare giù ad aspettare.]

*

So sta in simitèro

a trovàr mio papà a l´isoła de San Michele

dove se va co xe da passàr traghèto

ti xe ´ndà via bonóra, quarantadó ani

´na casa,

´na faméia péna tiràda su

mi gèro putèo

te sercàvo

ła to pólvare nel locuło più alto

tacà a quéo déa mama

                                     pièra co pièra

vado su fin ł´ultimo scaìn, ła scała bała,

la foto xe spórca e smarìa

quasi no se vede i to òci

                                     massa presto cascài néa tèra

                            sensa ´na paròa

dèsso vissìni al cieło.

[Sono andato al cimitero. Traduzione dal dialetto veneziano: a

trovare mio padre nell’isola di San Michele / dove si va nell’ora di

passare traghetto // sei andato via molto presto, quarantadue anni /

una casa, una famiglia appena costruita / io ero bambino // ti cercavo //

la tua polvere nel loculo più in alto / attaccato a quello della mamma /

pietra con pietra // salgo fino all’ultimo gradino, la scala oscilla, / la foto

è sporca e sbiadita / quasi non si vedono i tuoi occhi // troppo presto

caduti nella terra / senza una parola // adesso vicini al cielo.]

*

Lettera a mia madre

Il muro d’ombra è caduto otto anni fa e l’ombra

si è fatta più fitta, non hai avuto un sorriso

ma le labbra serrate del soldato che riceve

la cartolina e deve andare.

Ti scrivo in italiano, lo vedi, perché il dialetto era là

in cucina, sulla tua sedia impagliata dove guardavi

per ore da sola la televisione e sull’altra appoggiavi

le gambe a riposare le vene varicose

tra le patate da lessare, i tuoi occhiali appannati

la tazza con le caramelle alla menta.

Era nei tuoi ansiosi˝

come ti sta?˝,˝dove ti va?˝

le mie risposte buttate là, vorrei fare adesso

a te le stesse domande ma è tanta la paura

del tuo silenzio.

                            Ripenso alle tue madonnine

con l’acqua santa gettate

dopo

nella spazzatura.

Non sono servite a te.

Non servono a me.

Qui è tutto un calpestìo di nebbia, di roba da lavare,

conti da fare, crepe e silenzi, ricordi sbiaditi.

E fra tutto l’amore che manca sei forse tu

la più grande assente.