Quinto Orazio Flacco

Carmina

(IV libro, 

ode 7)

Forniamo qui una nuova traduzione dell’ode IV.7 di Orazio. Si tratta di un componimento che parla del ritorno della primavera. Tuttavia, come è consueto per l’autore del carpe diem, la gioia per l’ingresso nella bella stagione si accompagna qui ad un’amara riflessione sul tempo che scorre, e a un invito a non sperare in cose immortali.

Abbiamo tradotto il componimento a partire dal testo originale latino stabilito da Otto Keller ed Alfred Theophil Holder nel 1909, ma con una piccola modifica: abbiamo infatti accettato la lectio di Alfonso Traina, che al verso 15 legge pius anziché pater. Questa soluzione ci pare conferire maggiore coesione al testo, dato che, poco sotto, Orazio fa proprio riferimento alla pietas, come virtù non sufficiente per sottrarsi agli inferi.

Per quanto riguarda la metrica, abbiamo scelto l’endecasillabo e il settenario sciolti.

 

 

 

Carmina, IV libro, ode 7

Le nevi ormai si sono dileguate,

e già gli steli ritornano ai campi,

agli alberi le chiome.

La terra cambia volto

e i fiumi si assottigliano tra gli argini.

Aglaia, con le ninfe, osa condurre

le danze nuda tra le sue gemelle.

La stagione e lo scorrere del tempo

che strappa via da te il giorno benigno

ti dicono di non sperare più

nelle cose immortali.

Il freddo è mitigato dagli zefiri,

la primavera viene calpestata

dall’estate, che, appena l’ubertoso

autunno avrà disperso i propri frutti,

dovrà morire; e subito ritorna

l’inverno senza vita.

Ma le lune, veloci,

ripareranno alle ingiurie del cielo;

noi, invece, quando cadiamo una volta

dove finirono anche Enea devoto,

il ricco Tullo ed Anco,

nient’altro siamo che polvere ed ombra.

E chissà, poi, se gli dèi lontanissimi

aggiungeranno alle ore di quest’oggi

le ore di domani…

Ogni ricchezza, donata di cuore,

scivola via dalle mani bramose

del tuo erede. Torquato, non appena

sarai caduto giù,

e Minosse su te avrà pronunciato

un verdetto pur bello quanto vuoi,

né la tua stirpe, né la parlantina,

neanche la tua grande devozione

ti basteranno per tornare indietro.

Nemmeno, d’altra parte, può Diana

salvare il casto Ippolito dall’ombra,

né Tèseo sa spezzare le catene

del Lete al suo diletto Piritoo.

 

 


Testo originale

Diffugere nives, redeunt iam gramina campis

         arboribusque comae;

mutat terra vices et decrescentia ripas

flumina praetereunt;

Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet

         ducere nuda choros.

Immortalia ne speres, monet annus et almum

         quae rapit hora diem.

Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas

         interitura, simul

pomifer autumnus fruges effunderit, et mox

         bruma recurrit iners.

Damna tamen celeres reparant caelestia lunae ;

         nos ubi decidimus

quo pius Aeneas, quo Tullus dives et Ancus,

         pulvis et umbra sumus.

Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae

         tempora di superi?

Cuncta manus avidas fugient heredis, amico

         quae dederis animo.

Cum semel occideris et de te splendida Minos

         fecerit arbitria,

non, Torquate, genus, non te facundia, non te

         restituet pietas;

infernis neque enim tenebris Diana pudicum

         liberat Hippolytum,

nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro

         vincula Pirithoo.

Quinto Orazio Flacco (Venosa 65 a.C. – Roma 8 a.C.) è tra i massimi poeti della latinità. Oltre ad aver scritto numerose odi, tra le quali annoveriamo questo componimento, è anche autore di satire, giambi, epistole metriche e del Carme secolare. La sua poesia si caratterizza per una straordinaria raffinatezza formale unita ad una costante riflessione sui limiti dell’esistenza umana, informata da una profonda saggezza.